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Lo sguardo delle Albe non è mai asciutto e distante, ma umido e partecipato, tumido di una intima commozione che quasi trascina le parole in scena, esponendole al vento della rappresentazione  che ne scompiglia la sottile trama narrativa, come le foglie della chioma di un albero ben piantato nella pianura al di qua del grande fiume, sconvolte ma mai vinte dalla tempesta. Ancora una volta la ricerca drammaturgica di Marco Martinelli coadiuvato da Ermanna Montanari, dalla Emilia Romagna che fu, sorvola dunque, come l’antica melodia di Verdi, l’Italia che è intorno a noi, che è in noi, anzi che ‘siamo’ noi, come fu con Salmagundi, allora filtrata e deformata ma sempre riconoscibile nel grottesco, e poi nel Pantani, sospesa invece nella secca sintassi di un teatro inchiesta dalle tonalità brechtiane. Ora però, con quest’ultima comune ideazione di cui insieme firmano anche la regia, tutto è più diretto, quasi sovraesposto nella cadenza, da opera lirica, di un melodramma popolare che,

come ricordava Bontempelli, è forse l’ultimo autentico prodotto dello spirito italiano.
La scrittura drammaturgica e la sua trasfigurazione scenica, che matericamente ne riempie di sangue e carne il procedere verso di noi, può così posarsi “sui clivi, sui colli, ove olezzano tepide e molli l’aure dolci del suolo natal!”
Ma, come nelle corde di questa compagnia, non è nostalgia di ciò che fu o che poteva essere, è un vero e proprio grido di guerra teatrale che espone sé stesso ad un nuovo rischio culturale che non vuole adesione ma reazione critica e civile, che sia di condivisione ma anche di rifiuto e rigetto, mai di indifferenza.
Va pensiero è infatti, a mio avviso, un lavoro pienamente e consapevolmente politico che richiama a sé la sua polis e che da questa attende risposta, ma è anche, se non soprattutto, uno spettacolo che trascina dentro di sé l’intimità delle Albe e anche l’ingenuo stupore di uno sguardo su un mondo che non si vuole riconoscere e legittimare, uno sguardo che usa stupore e ingenuità appunto come armi per disarmare la nostra indifferenza.
Così l’epica del racconto, che, pur di fantasia, sappiamo nascere dalla vicenda di vita del vigile di Brescello Donato Ungaro, si mescola alla lirica introspezione dei mutamenti dell’anima che, al di là della stessa politica, sembrano inevitabilmente travolgerci e che transitano, segnali da un racconto noir, nei sogni della Sindaco Zarina andando appunto oltre l’alienante distacco di un apparente recupero brechtiano.
A questo contrasto interno, di stili e di sintassi, il coro verdiano dona inaspettata e intima coerenza tirando le fila di un percorso che nella contemporaneità riepiloga la progressiva perdita di senso di valori fondativi di ogni sana comunità, valori, quali democrazia, giustizia ed eguaglianza, che questo spettacolo non si vergogna, e in questo tempo dominato dai “disillusi” non è così comune, di metterci davanti agli occhi.
Lo fa, tra l’altro, a partire da una comunità concreta, da una polis storica come la terra di Emilia e Romagna, una polis che ha visto nascere il socialismo delle leghe contadine e delle cooperative e che ora sembra quasi rifiutarsi ad ogni partecipazione o coinvolgimento.
Non a caso, poi, al centro della scena vi è un sindaco donna e accanto a lei altre protagoniste femminili, a partire dalla consulente finanziaria, tutte insieme spia di un mutamento antropologico che però mutua le medesime vecchie logiche di potere e sopraffazione e che dunque nulla muta.
La stessa anima della terra antica di Romagna, che tanto ha alimentato della visione teatrale delle Albe, sembra dunque celata, e con essa la ricerca di vocalità autentiche chiuse nella matericità di quel dialetto, un’anima nascosta nell’ossessione delle nutrie che ben serve a distogliere lo sguardo e lo stesso pensiero.
La scrittura di Martinelli si fa qui straordinariamente piana e stranamente patinata, piegando la nostra koinè televisiva all’ingrato compito di mostrare cercando di nascondere, di spiegare e far comprendere mentre di altro parla.
Scorrono così le vicende di una Italia che tutti ben conosciamo, dalle mafie alla corruzione di una politica che ha perduto i suoi antichi vessilli, ma che tutti sembriamo rifiutarci di ri-conoscere mentre anche il senso delle nostre parole cambia, di volta in volta, verso.
Un lavoro importante e impegnativo per le Albe, su un testo che si compone sugli stessi corpi recitanti ma che transita con l’inaspettata forza della propria intima indipendenza e autonomia. La drammaturgia è di Marco Martinelli, dalla consueta comune ideazione con Ermanna Montanari che lo affianca anche nella regia, movimentata e quasi naturalistica eppure talora venata dalla icastica simbolicità di un mosaico bizantino.
In scena con Ermanna Montanari, inquieto sindaco Zarina, un nucleo delle Albe: Alessandro Argnani (il vigile), Laura Redaelli (la segretaria), Roberto Magnani (capo ufficio stampa), Alessandro Renda (imprenditore quasi onesto), Fagio (cacciatore di nutrie).
Con loro i bravi Ernesto Orrico (mafioso convincente), Gianni Parmiani (l’amico d’infanzia), Mirella Mastronardi (consulente finanziario), Salvatore Caruso e Tonia Garante (gelatai), Luca Pagliani (Dottore) ed il maestro del coro Stefano Nanni a dirigere “Gli Harmonici” di Bergamo.
Una produzione Emilia Romagna Teatro e Teatro delle Albe/Ravenna Teatro che dopo l’esordio a Modena ed il passaggio a Ravenna è in scena all’Elfo Puccini di Milano dal 9 al 14 gennaio.