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I lettori di Dramma.it che seguono questa mia rubrica sicuramente si sono accorti che da qualche mese le mie riflessioni partono e si riferiscono da\a autori italiani considerati dei “maestri” della drammaturgia del Novecento. Nel presente testo è la volta del grandissimo Pirandello. Sono convinto che chi mi legge non può non essere d’accordo con l’asserzione di Italo Calvino: i classici e le loro opere non finiscono mai di rivelarci qualcosa di importante. Per cui confido di non annoiare alcuno se continuo a “sfruttare” l’esemplarità dei “maestri”, dei nostri  “padri” (e “madri”) culturali nati e operanti, nella loro vita, nel nostro Paese, il quale è sempre più a rischio di perdere memorie fondamentali con cui è più facile  confrontarsi al meglio con le decisive trasformazioni di varia natura del tempo d’oggi.
Mi rivolgo dunque ancora una volta a nostro “padre” Pirandello, in particolare quello dei “Sei personaggi in cerca d’autore”, e ad un breve passo quando fa parlare la Figliastra che, nella terza parte della “commedia da fare”, nel pre-finale, dice alla sorellina Rosetta, prendendole la “faccina” tra le mani:
 
Povero amorino mio, tu guardi smarrita, con codesti occhioni belli: chi sa dove ti par d'essere! Siamo su un palcoscenico, cara! Che cos'è un palcoscenico? Mah, vedi? Un luogo dove si giuoca a far sul serio. Ci si fa la commedia. E noi faremo ora la commedia. Sul serio, sai! Anche tu...

L'abbraccerà, stringendola sul seno e dondolandola un po'.
(p. 751, vol. II, edizione Mondadori, I Meridiani, a c. di A. d'Amico, 1993).

Il punto che qui voglio considerare è tutto in quella presenza muta della bambina, inconsapevolmente portata sulla scena, dove, in quanto bimba, fa sul serio giocando, o a giocare, mentre la sorella grande “giuoca a far sul serio”: lo stato d'innocenza della bambina, “pura presenza” che finirà affogata nella vasca del giardino, sta tutto nella relazione tra finzione e realtà, mentre nella sorella adulta e “incestuosa” si contrappongono e si scontrano, pur nella dimensione finzionale della scena,  falsità e verità: questo conflitto viene giuocato (vale a dire dunque, rappresentato, recitato), sulle tavole del palcoscenico, “sul serio”. Ma la Figliastra è anche un personaggio-attore, come sappiamo, narra e vuol re-citare la sua terribile vicenda (nella quale l’autore può anche farci credere che il rapporto fisico tra lei e il padrigno si sia davvero consumato); e in questa dimensione la colloca lo stesso autore che la vede, “di lontano”, cercar di ri-comporre la storia di quei sei personaggi.
Dunque, in questo passaggio pirandelliano mi ha occupato mente e cuore una faccenda decisiva per il teatro d'oggi: l'attore che sta, in situazione simbolica (finta), cercando una verità, che può essere, assieme, o partitamente, la verità di un personaggio, e\o la verità del lavoro d'attore, e\o la verità di un lavoro su se stessi: nell'ultimo caso è coinvolta la stessa realtà, quella della persona-attore, e del suo rapporto con il contesto della realtà tutta. In questo caso siamo nella dimensione e nella dinamica del teatro anche laboratorio, che è un'invenzione databile ai primi Padri Fondatori europei del Novecento del teatro (più che del teatro del Novecento).

Ricordo ora quanto ci narra un famoso koan della tradizione orientale, una parabola Zen. Un monaco buddista chiede ad un suo allievo, Kejon: <<Come ritorna nel mondo normale un illuminato dopo aver meditato?>> e Kejon risponde: <<Uno specchio rotto non riflette più nulla. I fiori caduti non torneranno più sul loro vecchio ramo.>>
Dicendo questo, Kejon vuole dire: <<E' a te stesso che devi rivolgere la domanda. Smetti di preoccuparti per il domani! Vivi l'esperienza, e poi si vedrà! Se entri profondamente nell'illuminazione, va' incontro al mondo e saprai che cosa succederà. Una volta che si è rotto lo specchio, non riflette più nulla. Una volta che si è rotto l'ego, sparisce. Quando i fiori sono caduti, non tornano più sul ramo. Stanno per terra, al loro posto. Quando sperimentiamo un cambiamento, esso ci mostra il nostro nuovo posto nel mondo>>.
Il percorso, quindi, che porta ad  imparare prevede tre condizioni.
La prima è che si voglia acquisire una conoscenza, la seconda è che essa si possa acquisire per poi passare a metterla in pratica, e la terza è che si accetti il cambiamento provocato da questa nuova conoscenza. Certo, è facile, però, inciampare spesso su questo terzo punto. Infatti si fa tutto ciò che serve per cambiare, ma quando arriva il cambiamento diciamo: <<Che succederà quando ritornerò nel mondo?>>.
Vi è un’unica risposta, o quanto meno la migliore: fare il nostro lavoro! Meditare! Trovare noi stessi! E poi, andare nel mondo e vedere! Occorre lasciar affiorare la nostra bellezza interiore e realizzarsi senza chiedersi quello che succederà dopo o come reagirà il mondo!
Anche la Figliastra pirandelliana compie un suo percorso di approfondimento della sua vicenda esistenziale, prende atto di una serie di drammatiche verità, certo dal suo punto di vista, e alla fine se ne va per le strade del mondo, probabilmente per continuare il mestiere della prostituzione.
Dunque, ognuno di noi ha sempre un proprio posto nel mondo. Ci sono ovviamente posti per i pazzi e per i sadici , ma ce ne sono anche per le persone che hanno lavorato su se stesse. Esiste spazio per le persone positive, per le coppie che lavorano per creare la propria divinità, per tutti coloro che non accettano la negatività. Sapendo questo, che posto ci scegliamo? Noi, invece di avanzare di imperfezione in imperfezione e di errore in errore, dovremmo cercare le falle del sistema, gli spazi di perfezione, e non avanzare se non sfruttandoli a nostro vantaggio, e trovando un sentimento di vera gioia.

Da Pirandello a oggi, dunque, la realtà del teatro, vissuta come ricerca su se stessi in dimensione simbolica-finzionale, si può poi riversare nella realtà-realtà, nella vita, il che equivale a trovare la propria verità, cioè autenticità, non solo come attori ma come persone. Potremmo chiamarlo, l'esito di tale ricerca, “illuminazione”, o, come Grotowski, “awareness”, che può portare all'assenza dello spettacolo, o ancora “via”, o “tao”, intesi, insomma, come autoliberazione e slegamento da molteplici orpelli e falsità, a-religiosamente, laicamente (anche se uno spirito religioso può non solo re-ligare, ma anche, appunto, s-legare! come ci ricorda Raimon Panikkar).
Questa è “una” possibilità di autenticità del teatro, oggi, specie per chi lo fa in prima persona, dando priorità all'esperienza pre-spettacolare (non solo nelle prove, che saranno decondizionate da tempi e costi, quand'è possibile, ma anche nel training, nel lavoro laboratoriale, nell'esercizio pedagogico); è un modo di trasformazione del teatro da cui penso non si possa prescindere, in un tempo in cui la sua necessità sembra venir meno sempre di più; è un modo tramite cui i cosiddetti teatranti, in specie gli attori, possono autotrascendersi, superare il proprio io, per immergersi autenticamente verso il mondo della vita, una volta usciti dallo spazio scenico, e dalla pura spettacolarità, che può ridurre l’arte del teatro a superficiale artificio.