Londra è una città dal fervore teatrale molto spiccato. C’è una grande varietà di temi e un ampio ventaglio di possibilità per scrittori emergenti. Ma la competizione è efferata! Terror è una rassegna di corti teatrali che viene messa in  scena nel periodo di  Halloween. Southwark Playhouse è uno spazio teatrale di capienza massima 150 posti, ricavato sotto le volte della stazione ferroviaria

di London Bridge. In pietra viva, umido, freddo e con un sottofondo di lontani rumori provenienti da una sinistra ferrovia, si rivela un luogo perfetto per spettacoli alternativi! Il tono di questa rassegna è particolarmente macabro e riflette quella corrente britannica di inizio millennio detta “In your face” che, per scuotere la cieca società perbenista, le “sbatte in faccia” la realtà contemporanea, senza curarsi della buona educazione e del decoro. Il teatro stasera è al completo. Si vocifera che i quattro corti siano ordinati per ascendente intensità e  separati da intermezzi incredibilmente comici che stemperano la tensione. Si prospetta un risultato coinvolgente, provocatorio e spaventevole! Il primo corto è Psychogeography, scritto da Lucy Kirkwood, 27 anni. Una giovane coppia sposata è intenta a decidere se acquistare o meno una vecchia casa. La scena si svolge nell’attico, illuminato solo da una candela, in cui vengono scoperti a poco a poco antichi strumenti di tortura. Le cose iniziano a farsi interessanti quando la discussione sulla decisione da prendersi inizia a scavare nel passato dei due, riportando recondite tensioni e rancori in superficie. Lui si rivela un individuo dal temperamento pericoloso che, guidato dall’atmosfera del luogo, finisce per imporre la propria volontà sull’acquisto della casa, spingendo la compagna su una sedia della tortura, un po’ per scherzo e un po’ per una sottile affermazione di potere. In un lampo di luce si intravede uno spettro – ottimi effetti speciali! – proprio dietro la sedia. In questo istante si intuisce il leit-motiv della rassegna: più che trattare di terrore sovrannaturale, si intende sottolineare il terrore quotidiano e nascosto, generato dagli stessi esseri umani. Mark Ravenhill, controverso scrittore inglese contemporaneo, è anche attore del secondo corto, The Experiment. Attraverso un lungo monologo, un uomo visibilmente turbato si sfoga e parla, inizialmente in modo vago, di un esperimento su malattie infantili. Rivela per gradi di aver condotto dei test su alcuni bambini infermi insieme al suo partner, il quale soffriva di un simile morbo. Segue una dettagliata descrizione delle metodologie con cui ogni tipo di virus sia stato iniettato durante l’esperimento. Ad un tratto, accade una svolta drammatica: l’uomo non accusa più se stesso e il suo partner di essere gli autori di un tale abominio; piuttosto, terzi sembrano esserne in carica. L’incoerenza e la frammentazione della narrazione riflette la confusione tra la realtà e l’immaginazione di quest’uomo, che finisce per dimenticare completamente la motivazione del proprio sfogo e, anzi, non ricordare neppure di che cosa stesse parlando, finché il pubblico inizia a bisbigliare che il bambino vittima degli esperimenti fosse proprio lui… Il terzo corto, Twisted, è opera di uno dei miei scrittori britannici preferiti: il pungente Anthony Neilson. Nel corso di un interrogatorio in uno scuro seminterrato di una prigione ad alta sicurezza, un omicida alla prima vittima si confronta con una giovane psicologa, garante della sua condanna. La tensione tra i due è palpabile e il potere dell’uno sull’altro è in continua alternanza. Lei ostenta una forte sicurezza di sé; mentre lui, con un libro tra le mani e studiata freddezza, non mostra alcuna soggezione. Si ci chiede subito chi la spunterà. Con l’intento di bollarlo ormai come serial killer, la psicologa lo accusa di non avere una coscienza e interpreta ogni sua affermazione a proprio favore. Il prigioniero sostiene di non aver voluto ammazzare la sua vittima, ma che fosse solo successo, e cerca inutilmente di spiegare cosa abbia significato per lui uccidere qualcuno, accusando la donna di attribuirgli l’etichetta più comoda e sicura. È intrigante sentire l’assassino iniziare a parlare di cosa sia davvero la coscienza e se sia un elemento inventato dall’uomo, tanto che ci si chiede se siano parole sue o frasi che ha imparato a memoria dal libro che possiede. Ed ecco la svolta: lei gli propone di ammazzare l’amante di suo marito, in cambio di una riduzione della condanna. Chi è che manca di coscienza adesso? Lei sta tentando di fargli scoprire le carte da killer per vincere finalmente la battaglia o vuole semplicemente sbarazzarsi di una rivale? Lui inverte completamente i ruoli e rifiuta il ricatto perché spetta solo a lui decide se ammazzare o meno qualcuno. Atto di coscienza o disturbo mentale? A chiudere lo spettacolo è, Some White Chicks,  dello sfrontato Neil LaBute che propone un pezzo difficile da digerire. Due ragazzi adolescenti, visibilmente allo sbando, si ritrovano nel loro nascondiglio segreto con patatine, coca cola e internet. Hanno picchiato e legato una ragazza che ora tengono prigioniera in un telo di plastica. Ne hanno fatto dei video che intendono vendere in rete. Uno dei due spiega all’altro che finalmente hanno avuto un’idea originale e possono offrire qualcosa di vero e cattivo alla gente, avida di nuove esperienze. La scena è piena di elementi raccapriccianti, tra i quali la ragazza che piange dal sacco e viene calciata fino alla morte. Ma il finale va veramente oltre i limiti e inscena un episodio di necrofilia. Questi errabondi adolescenti, figli anonimi di una metropoli rigurgitante, trovano nell’estremo un puro motivo di distrazione. Il pubblico non applaude.