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Ci sono testi teatrali che per la profondità del loro senso e per la densità poetica del linguaggio diventano “classici”, testi classici che perdono, in qualche modo, la loro determinata connotazione temporale e con i quali è doveroso (ne siamo certi) che si confronti ciclicamente chi si nutre e vive di teatro. Uno di questi classici è sicuramente i “Giganti della montagna” (1937), un testo che Pirandello ha realizzato e messo in scena a summa e rilancio estremo e mitico della sua poetica e che non smette di ispirare, di stagione in stagione, nuove riletture, nuove interpretazioni, nuovi pensieri. Ed è una rilettura di questo classico pirandelliano quella che, col titolo abbreviato di “Gi gan ti”, ha debuttato venerdì 12 ottobre sulla scena del “Teatro Libero” di Palermo per la regia di Lia Chiappara. In scena Matteo Anselmi, Roberta Belforte, Alice Canzonieri, Gloria Carovana, Vincenzo Costanzo, Massimo Rigo, Silvia Scuderi e Giuseppe Vignieri; le musiche sono di Antonio Guida. La

regista, che è da anni una delle voci più profonde, colte e prolifiche della scena palermitana, ha scelto una lettura tutto sommato abbastanza comune del dramma pirandelliano: ovvero una riflessione sull’autonomia della prassi artistica, sempre stretta tra gli slanci generosi e puri dell’ispirazione e la concretezza strutturale e, se si vuole politica, della realizzazione: una scelta legittima e totalmente legittimata dall’ampiezza polisemica del testo pirandelliano. Nulla questio. Ciò che rende però interessante questo lavoro è la costruzione extra testuale e complessiva dell’allestimento: soprattutto la scenografia (progettata e realizzata dalla stessa Chiappara con Maria Giovanna Puccio) che conferisce alla “villa degli Scalognati” l’aspetto di un bellissimo e incantato (o forse è meglio dire stregato) interno rinascimentale a pareti marmoree e policrome. Un aspetto che accoglie benissimo tutta la costruzione dello spettacolo curata al millimetro, come è gusto e come si vede fare sempre meno, dall’inizio alla fine, dai movimenti degli attori ai colori di trucchi e costumi, dalla recitazione lenta (forse un  po’ troppo) e ponderata alla scelta delle musiche (di Antonio Guida) bellissime e in parte originali. L’effetto è duplice: da un lato la ricerca spasmodica della perfezione formale, del congegno teatrale che si muove quasi automaticamente e senza deviare da quanto stabilito, di una forma chiusa che risulta affascinante nella sua (almeno tendenziale) inattingibilità e ricorda importanti esperienze del teatro novecentesco e contemporaneo; dall’altro lo spettacolo, proprio in conseguenza a queste qualità, rischia di apparire lontano, algido e, se non proprio afasico, chiuso e ovattato in una dimensione di inarrivabile perfezione. Nell’uno e nell’altro aspetto di questa messinscena probabilmente giocano un ruolo il rispetto “sacro” verso il grande classico pirandelliano e l’affidarsi alle movenze di una tradizione teatrale che sa ancora mostrare la sua solida grandezza ma che tuttavia stenta a sedurre il pubblico contemporaneo.