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Il luogo che Alda Merini occupa nella letteratura italiana, e nella cultura italiana in genere, è di per sé una sorta di paradosso, perché non è tanto la qualità estetica della sua scrittura, pure altissima, che la abita e trascinandola la contrassegna, quanto l'impasto che questa scrittura ha con la sua esistenza, una esistenza che nel confondersi con quella quasi la sovrasta e la incorpora facendo dell'una e dell'altra una inestricabile metafora che parla, più che a lei, innanzitutto a noi che quell'impasto di nuda follia e di amore incombusto sempre nascondiamo e di cui, però, elaborandolo, ci nutriamo comunque. Alda è dunque diventata un simbolo, è diventata una narrazione di sé e di tutti noi che ha parlato attraverso il suo vivere, e di quel vivere la parola è stata come un segnalibro che ne rimanda e sottolinea i passaggi, tra cadute persistenti e resurrezioni talora mancate. Di questo ci parla dunque la bella drammaturgia di Giorgio Gallione, di una esistenza che ha costruito parole e che

è è stata costruita sulle parole, e lo fa in un certo senso mutuando quel processo estetico e riproducendolo, ribaltato in scena, in una trama sottile che alterna e confonde con sapienza la parola narrante con la parola poetica, così che il transito scenico può farsi eco del transito esistenziale, tra sofferenza e ardore.
In questo narrare, dunque, anche il manicomio e l'esperienza manicomiale, senza perdere il suo carico di denunzia e rigetto, diventa tramite estetico di una scoperta intima che nutre la poesia e di cui la poesia si nutre fino a consumare il tempo che la vita ci concede.
Così questo essere in scena, una scena arricchita di reminiscenze musicali tra Sibelius e Celentano, supera e travolge il “leggere in scena le poesie” di Alda Merini, riuscendo piuttosto a penetrare l'incastro tra creazione poetica e accidente esistenziale, nell'infinito e irresolubile paradosso che, come detto, lega talvolta la poesia e la follia, senza che mai l'una possa veramente riscattare l'altra e viceversa.
La poesia che vediamo transitare sul palcoscenico, infatti, non ha protetto Alda dalla follia e tanto meno ne ha mitigato la sofferenza, l'ha solo portata alla luce rendendola, e noi con lei, consapevole del “male di vivere”.
Un bel lavoro questo, robusto nella parola scritta e in quella detta in scena da una bravissima Milvia Marigliano che talora confonde anche la nostra prospettiva e i nostri tentativi di restare a distanza, tanto appare calata ed intrigata nella narrazione di cui si fa carico.
Intorno a lei i danzatori Luca Alberti, Angela Babuin, Eleonora Chiocchini, Noemi Valente e Francesca Zaccaria, che si fanno carico dei suoi ricordi e dei suoi fantasmi, appaiono per questo talvolta estranei tanta è la forza della parola che li circonda.
Una bella produzione del Teatro Nazionale di Genova che battezza in modo adeguato l'inizio della nuova stagione. Drammaturgia e Regia di Giorgio Gallione con Milva Marigliano. Coreografie di Giovanni Di Cicco, scene di Marcello Chiarenza, Costumi di Francesca Marsella e luci di Aldo Mantovani.
Al Teatro Duse di Genova dal 24 Ottobre all'11 Novembre. Una prima caratterizzata da grande partecipazione e altrettanto entusiasmo.

Foto Bepi Caroli