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Il Mito non è che il racconto di sé che l'umanità ha fatto, anzi continua a fare, quando emerge e si divincola dal caos primordiale che la circonda, un caos che nelle ombre mute e mutevoli di dei così lontani ma così prossimi comincia a leggere l'umanità dell'uomo e della donna che con la parola (ricordiamoci l'albero della conoscenza) si ribella e costruisce una nuova Storia. Ne parlò e ne scrisse, intuendolo più che comprendendolo, Nietzche che immaginò la tragedia antica, e, perché no, anche quella moderna, come un fronteggiamento del turbamento dionisiaco, muto ed erotico, che si organizza in parola e racconto, dipanandosi sulla scena mentre sembra sottrarsi al nulla e andare verso la conoscenza e la consapevolezza di sé stessi e del mondo (“fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza”). Ma talvolta quella stessa parola pare indugiare sul confine del caos così da nutrirsene, come una radice nel profondo della terra, attingendone nuova vita e nuovo significato. È il caso, io credo, di questo testo inedito e finora mai rappresentato di Massimo Sgorbani che racconta il generarsi delle generazioni umani dal fondo oscuro della divinità,

onnipotente, onnipresente e schiava di pulsioni così suggestivamente e paradossalmente umane. Il Dio fa ciò che l'uomo immagina e sogna e da cui trae il senso del proprio esserci e del proprio esistere mutevolmente immutato.
Una madre, visitata da un dio irresistibile come il toro bianco che ha rapito Europa, ha partorito dodici dei e con i dodici un tredicesimo che dio non è, anche se come il dio sembra muto e lontano dalla parola. È il segno di una blasfemia, di una punizione per una colpa sconosciuta, forse solo la colpa di aver bestemmiato il dio volendo “conoscerlo” (ancora l'albero).
Tra loro il segno del tormento reciproco, del rimpianto della madre e del rimorso del figlio colpevole e innocente come ogni capro espiatorio, e con quello il segno della solitudine e dell'allontanamento dalla comunità che non sopporta una tale prossimità con il divino. Un rapporto di sofferenza che sconfina nella rabbia e mentre si consuma guarda all'orizzonte doloroso e tragico dell'incesto.
Ma non è solo ciò che racconta, è la stessa tessitura del racconto di Sgorbani, la sintassi che articola le relazioni a rivelare questa strana prossimità con il caos da cui comunque proveniamo, una prossimità che ricorda le indagini Benjaminiane e le sperimentazioni di Edoardo Sanguineti verso il senso autentico, una prossimità che si esprime in un uso dei tempi verbali che, abolendo il congiuntivo, sembra voler sospendere lo scorrere del tempo per ancorarsi ad una eternità perduta, ad una sospensione della storia propria di quegli dei muti e mugghianti e di quelle primordiali e creative contaminazioni.
In questo punto cruciale il testo ha incrociato la sensibilità e la creatività di Giorgia Cerruti e, contaminandola, se ne è contaminato trovando finalmente nel transito scenico quella profondità aspra e gutturale che conteneva e che premeva sulla sintassi stessa. Un profondità che la messa in scena ci mostra mentre in uno spazio liquido come l'utero invaso dal seme divino, madre e figlio sembrano ripetere in continuazione il racconto della loro unione nel divino e della loro separazione nell'umano, incerto e imperfetto come ciò che si distacca e nasconde per “consentire” il mondo e la sua storia.
La Cerruti è una madre rabbiosa e insieme compassionevole, che odia quel suo tredicesimo parto infelice e insieme lo protegge dal mondo che vorrebbe cancellarlo, a cavallo di quel confine che si può attraversare solo una volta, incapace di essere un dio e incapace di essere un uomo.
Così riesce a trasmutare la propria espressione scenica quasi che la voce, straordinariamente padroneggiata, fosse essa stessa una articolazione fisica e corporea che ne organizza i movimenti e sembra mai abbandonarla.
Davide Giglio, il figlio che ne condivide la scena, è altrettanto bravo a rappresentare una sorta di stato fisico e metafisico che precede la parola ma sembra anticiparla e quasi costruirla con un lavorio continuo, un mugghio da cui come in tempo mitico e primitivo sgorga l'unica parola significante che pronuncia a fine rappresentazione, quel “mamma” che quasi rappresenta l'esito di un percorso psicologico ma anche culturale, perché “i figli degli dei non hanno madre” ma i figli degli uomini invece sì. Non per niente il figlio della più straordinaria e essenziale incarnazione divina, Gesù, si definì “il figlio dell'uomo”.
Uno spettacolo dunque di grande spessore e di indubbio interesse, in cui la fusione tra testo e rappresentazione è ulteriore, ma non inatteso, segno della capacità della “Piccola Compagnia della Magnolia” di penetrare la narrazione, la parola quasi esorcizzandola per estrarne senso e significato che in scena, nel qui e ora della rappresentazione, assumono il loro volto, la loro carne, il loro sangue, quasi trascinandoci catarticamente oltre e fuori di noi.
Uno spettacolo forte e scandaloso, intendendo etimologicamente come scandalo quell'inciampo che ci conduce alla conoscenza, e la cui unica oscenità è quella di rivelare il territorio su cui fecondano e crescono il sentimenti umani.
Una ulteriore tappa di un cammino di maturazione recitativa e drammaturgica che cresce e si perfeziona, non certo inaspettatamente per chi ha il piacere di seguirli da qualche anno.
Un creazione di Piccola Compagnia della Magnolia, con il sostegno di Armunia, di Residenze Idra e del Teatro Akropolis e in collaborazione con il Festival delle Colline Torinesi/Creazione contemporanea.
Giorgia Cerruti cura anche la regia di questo “primo studio” e ha disegnato i costumi, veramente belli. Assistente Fabrycja Gariglio, musiche originale e sound design Lucio S. Diana, Style e visual concept Lucio Diana, realizzazione scenografica Domenico de Maio, maschera di Michele Guaschino e, infine, sarta di scena Andrea Portioli.

Al teatro I di Milano dal 16 al 21 gennaio.