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In un'epoca in cui, ahimè, l'etica è stata sostituita dal 'politicamente corretto' Luca Doninelli, scrittore da tempo avvezzo al teatro e al quale può essere tranquillamente attribuita questa interessante riscrittura drammaturgica, si addentra in quello che può essere considerato un vero e proprio monumento del romanzo “sociale” ottocentesco, affresco appassionato di un mondo in evoluzione/rivoluzione che creava valori e di cui sembriamo esserci dimenticati, come del resto di quel “secolo breve” suo frutto ed erede. È il suo un lavoro di scavo, non tanto un adattamento per la scena, un lavoro di sottrazione attraverso il quale rintracciare un file rouge etico, una etica e dunque un giudizio morale (è paradossale che oggi quasi dobbiamo vergognarci di questa parola) attraverso il quale finalmente ripristinare un discrimine, un confine tra giusto e ingiusto, tra bene e male, e dunque un orizzonte che ci permetta di navigare con coscienza in questa nostra società liquida dominata e guidata dal solo potere del denaro. Un lavoro di sottrazione, resezione, revisione e travestimento per la scena di quel testo, che diventa così un lavoro di scavo nella nostra contemporaneità

alla ricerca di insperate reminiscenze e suggestioni di quei valori e di quei contrasti, delle lotte di classe da cui nascevano desideri perduti e dimenticati, seppelliti nel non senso delle attuali comunità, desideri o forse utopie: liberté, egalité, fraternité.
La scrittura di Doninelli è infatti straordinariamente fedele nello sviluppo narrativo ed insieme così moderna nella sintassi, quasi fosse balzata con un solo salto nel nostro tempo, ed è dunque straordinariamente sincera, nel suo significato e nella sua ricerca, capace cioè di suscitare anche in ciascuno di noi un giudizio, appunto, kantianamente etico.
Luci e ombre, contraddizioni e superamenti che riguardano il singolo individuo, quel Jean Valjean che vuole tutti rappresentarci, così straordinario eppure così ordinario, ma che riguardano anche la Società nella sua ansia di rivolta e riscatto.
La bella regia di Franco Però ben coglie l'indirizzo di questa riscrittura scenica e la enfatizza nel continuo mutare delle scene, con un utilizzo molto moderno delle antiche “quinte”, e con il sovrapporsi tra scena e contro-scena dei movimenti degli attori.
Tra questi, vero centro di rotazione propulsiva, un bravo Franco Branciaroli che mantiene una commozione e una passione alienata e distaccata, e così carica di suggestioni.
Con lui a dividersi gli altri numerosi personaggi della narrazione, spesso più di uno a testa ma sempre con efficacia e professionalità: Alessandro Albertin, Silvia Altrui, Filippo Borghi, Romina Colbasso, Emanuele Fortunati, Ester Galazzi, Andrea Germani, Riccardo Maranzana, Francesco Migliaccio, Jacopo Morra, Maria Grazia Plos e Valentina Violo.
La scenografia, già lodata, è di Domenico Franchi, i costumi di Andrea Viotti, le musiche di Antonio di Pofi e le luci di Cesare Agoni.
Uno spettacolo attrattivo che regge molto bene la sua inusuale (oggi) durata, prodotto da Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, da CTB Centro Teatrale Bresciano e da Teatro degli Incamminati, ospite del Teatro Nazionale di Genova al Teatro della Corte dal 5 al 10 febbraio.
Buona la partecipazione di pubblico alla prima e buono l'apprezzamento.