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La prima didascalia di questa drammaturgia si conclude così: «in un luogo indefinito della Sicilia, una mattina di un giorno qualunque». Emerge uno degli elementi che caratterizza fortemente questo spettacolo, ossia il senso di indefinito che veste il luogo e il tempo. Dopo aver osservato la messinscena e dopo aver letto il testo, si rafforza sempre di più la convinzione che i livelli di lettura di questa drammaturgia siano molteplici, ma costanti. Sfumature, modi di dire, allegorie, metafore e similitudini arricchiscono il dialogo tra i due personaggi, i cui nomi contengono il senso profondo di tutto il discorso. Memore dei soprannomi verghiani, l’autore Rino Marino caratterizza fortemente i due personaggi maschili che interagiscono in una storia senza tempo e senza apparente finalità, attraverso modalità originali e grottesche che rivelano, invece, una tendenza didascalica dalle fattezze poetiche e surreali. Taddarita, vocabolo  siciliano ormai arcaico utilizzato per indicare il pipistrello, e

Malafesta, nome che dà il titolo allo spettacolo, sono i due protagonisti che dialogano costantemente, attraverso un ritmo che racchiude in sé tecniche teatrali e narrative antiche. I due attori, lo stesso autore nei panni di Taddarita, e Fabrizio Ferracane, nei panni di Malafesta, ricamano un’azione scenica attraverso cui emerge una formazione pregna di esperienza attoriale e drammaturgica. Nonostante la regia appaia spesso ripetitiva, entrambi mantengono da un lato ritmi serrati, caratterizzati dal dialogo con botta e risposta, e dall’altro creano una partitura musicale, ciascuno con una tonalità recitativa e sonora costante che permette un equilibrato amalgama tra il parlato dell’uno e quello dell’altro. Questo spettacolo è costruito su un ricchissimo testo in dialetto siciliano, tessuto sulle sonorità della lingua trapanese, con inserti di micro cunti che introducono improvvisamente piccole storie e filastrocche all’interno del racconto predominante. Il ritmo costante, sebbene serrato, oscilla tra momenti di estrema velocità e rallentamenti, tra picchi sonori, evidenziati da urla e “banniate”, e bassissimi livelli di suono, quasi sussurrati. In scena al Piccolo Bellini di Napoli, dal 19 al 24 febbraio, questo spettacolo nasce dalle fucine della Compagnia Marino-Ferracane, ossia l’Associazione Culturale SUKAKAIFA, nata nel 2010. L’autore-attore è laureato in psichiatria e la sua esperienza con i pazienti affetti da disagio mentale in realtà si coglie solo dopo un’approfondita conoscenza della sua esperienza artistica e professionale: osservando i personaggi, in effetti, emerge un corto circuito comportamentale che, però, non sembra condurre gli spettatori verso un’immediata osservazione psichiatrica. Invece, il grottesco e il surreale, che caratterizzano Taddarita e Malafesta, guidano costantemente il pubblico attraverso un codice di lettura che rimanda al Teatro dell’Assurdo, o ai due famosi protagonisti beckettiani, fino ai più recenti personaggi di “Uscita d’emergenza”, testo firmato dal drammaturgo napoletano Manlio Santanelli. La coppia in scena, spesso legata ad un mondo linguisticamente siciliano, ma raramente geograficamente identificato, così come il tempo, è una costante della drammaturgia siciliana contemporanea: da Pirrotta a Franco Scaldati, dalla coppia Sframeli/Scimone a Vetrano/Randisi, da Tino Caspanello e Cinzia Muscolino  a Rosario Palazzolo a Salvatore Nocera, fino ai giovani Carullo/Minasi, per citarne solo alcuni ed alcuni spettacoli in particolare. In molti casi anche il dialogo sospirato o il botta e risposta sembrano elementi ricorrenti, così come la tendenza della scrittura siciliana alla concatenazione, ripetizione e alla frammentazione delle frasi. Nel testo di Marino emergono centinaia di riferimenti e di elementi, come un vaso di Pandora che, una volta scoperchiato, continua a vomitare parole e concetti. Uno degli elementi che la scena ci fornisce, e che quindi potrebbe rivelarsi il codice di accesso, visivo e semantico, è sicuramente la porta a cui Malafesta bussa –“tuppuliari”- mentre Taddarita ritarda nell’aprire. Questa è la scena iniziale ed è visibile al pubblico, sia dall’interno che dall’esterno dell’ambiente immaginato, ed è ripetuta e prolungata nel tempo. Solo in un secondo momento lo spettatore comprende perché la porta cigoli, perché non si apra del tutto e perché i due personaggi riprovino la finta scena del bussare e dell’entrare, indossando i panni dell’altro, secondo un meccanismo storicamente teatrale, molto diffuso e caratterizzato dalle fasi della svestizione, vestizione e dal ribaltamento dei ruoli. Il mondo esterno è escluso da un ambiente serrato, come evidenzia il fascio di luce che mette in risalto, nell’ultima scena, le persiane chiuse, e polveroso, simbolo di un decadimento, fisico e psicologico che emerge costantemente nel rapporto tra i due personaggi isolati dal mondo. Il tempo si è fermato, così come la sveglia ormai rotta, e i due protagonisti attendono che si proceda, senza nessuna aspettativa e con qualche ricordo. L’aggettivo che viene spesso ripetuto è “disgraziati”, parola che assume sottili sfumature, sebbene sempre negative, all’interno della parlata siciliana: disgraziato è colui che cade in disgrazia, che è povero, ma anche colui che è sfortunato, o si dice di ragazzo che non vuole seguire la retta via, ma anche colui che non è sano fisicamente e mentalmente. Esistono uomini ai quali la disgrazia si attacca per tutta la vita, come i pipistrelli si attaccano alla nuca o ai capelli, emergendo dall’oscurità. Da qui il soprannome “taddarita” che viene affibbiato a colui che sembra essere il personaggio più lento, più decadente, quasi conscio del suo trascinarsi fino alla fine. Dall’altra parte Malafesta propone di festeggiare qualcosa che non esiste più o che non ci sarà mai, attraverso un concetto e un nome ossimorici. Emergono costantemente vocaboli o modi di dire legati al lessico mortuario, sebbene citati in maniera ironica, come “tabuto” (bara), il vestito della festa preparato per la bara, la malanova (la sfortuna), gli occhi che non vedono, le orecchie che non sentono. Chi resta fuori dalla porta continua a vivere, o prova a resistere bussando, ragionando e cercando di ricordare tra i fili contorti della mente, come quelli delle lenze e degli ami – “palanguru”-; chi resta dentro è immobile, sotto le coperte, circondato dai moscerini. I “muschitti” immaginari, che Taddarita cerca di uccidere, sono solo alcuni degli animali o degli esseri viventi citati in questo testo, ricordando la tradizione favolistica antica, da Esopo ai bestiari medievali, fino allo stesso grillo parlante di Collodi, identificati come portatori di verità, di buone o cattive notizie, di trasformazione, di vita o di morte, o semplicemente come simbolo della società omologata e fastidiosa che relega al confine alcuni individui.
Una delle frasi più interessanti, ancora oggi utilizzate nella lingua parlata siciliana, è appunto “non ho più neanche gli occhi per piangere”; recuperata e inserita in questo spettacolo e in questo contesto assume la valenza e la funzione di metafora del percorso verso cui vuole condurci l’autore. Allontanandosi da qualsiasi piagnisteo o dramma, egli utilizza, nel fondamentale ruolo di autore e attore, due matti che hanno ben capito come si svolge la vita. Senza nessun fronzolo o patetismo eccessivo, ma optando per una surreale poesia.

LA MALAFESTA
Piccolo Bellini Napoli
19-24 febbraio 2019
testo e regia Rino Marino
con Fabrizio Ferracane, Rino Marino
musiche Mimmo Accardo
scene e costumi Rino Marino
luci Rino Marino, Fabrizio Ferracane
produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini