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D: Siamo a La Spezia e tra poco una compagnia di detenuti del locale carcere metterà in scena, per la stagione di FuoriLuogo, lo spettacolo frutto del laboratorio che, in quello stesso carcere, è stato tenuto dalla associazione teatrale Gli Scarti. Inizierei dunque proprio dal progetto che ha promosso e consentito, insieme ad altre, anche questa iniziativa, progetto dal nome suggestivo “Per aspera ad astra” e di cui tu sei stato in un certo qual modo il fautore. Che significato ha per te questo progetto e la sua realizzazione?

P: Che io ne sia o meno il fautore, vorrei entrare nel merito del progetto il cui accadere è stato per me comunque inaspettato. Inaspettato, cioè, è stato questo incontro a Volterra in cui per la prima volta, grazie alla spinta della Cassa di Risparmio di Volterra che ci segue dall'inizio e che ha costruito l'evento, molte fondazioni bancarie si riunivano per conoscere il nostro lavoro nel carcere. Inaspettato anche trovarsi, in quella circostanza, di fronte a persone sorprendentemente attente, competenti e interessate, talora più di chi istituzionalmente si occupa di politica culturale, politici, assessori o funzionari che siano. Io non conoscevo l'Acri, la sua sezione cultura e le fondazioni bancarie nel loro insieme e così mi sono presentato all'incontro senza soverchie illusioni. Abbiamo

illustrato il nostro lavoro e i nostri progetti e però abbiamo avuto un riscontro appunto sorprendente, segno forse che in tanti anni di impegno abbiamo conquistato una visibilità notevole nel panorama teatrale italiano. Il sostegno ottenuto tra l'altro è importante non solo dal punto di vista economico ma soprattutto da quello politico-culturale. Da qui è nato il progetto, una sorta di contagio, di cui La Spezia è una tappa importante.

D: Quando si parla di teatro nelle carceri in genere si usa una definizione prevalente, quella di “teatro sociale”. Io trovo questa definizione inadatta e inadeguata in quanto restringe troppo il campo e talvolta non riesce a significare quello che effettivamente viene fatto. Credo al contrario che il teatro c'è o non c'è e, pur comprendendo l'esigenza di categorizzare ed etichettare, faccio fatica ad accettare quelle che sono in fondo semplificazioni che restringono la visuale e la piena comprensione di un fenomeno molto più articolato.  Pertanto vorrei avere da te una tua definizione del lavoro che da oltre trent'anni stai portando avanti con i detenuti a Volterra.

P: Al di là di quella e di tante altre definizioni che sono state coniate (teatro della diversità ovvero riabilitazione) a me interessa tentare di spiegare quello che ho incominciato allora a fare e che sto ancora sviluppando. Infatti il motivo per cui io sono entrato nel carcere non era, in sostanza, il carcere. Io non volevo e non dovevo riabilitare o salvare nessuno, non avevo la formazione, la cultura e le parole stesse per queste cose. Io sono arrivato lì per il teatro, e questo ha segnato la differenza. C'era in quel momento soprattutto un problema mio, un mio livello, per così dire, di disperazione personale verso il teatro, dovuto forse al fatto che ero giovane e agli inizi del mio percorso di regista teatrale, anche se venivo da una esperienza già importante, quella del “Teatro dell'avventura” all'insegna di Grotowsky. Quindi non mi interessavano intenzioni e finalità quali la rieducazione ovvero l'utilizzo del teatro per fini che non fossero il teatro. Io dunque sono andato in carcere per formare una compagnia teatrale e sono andato in carcere in quanto fuori non trovavo quello che cercavo. Il panorama del teatro italiano mi sembrava deludente, anche il teatro di ricerca mi sembrava stesse esaurendo le sue potenzialità di innovazione e rottura. Quindi ritenevo si dovesse ricominciare da zero. Io non volevo perciò lavorare con gli attori, o meglio con gli attori professionisti, con le produzioni dei grandi e piccoli teatri, cui peraltro mi aspettavo ancora di  tornare dopo l'esperienza di Volterra, anche se cominciavo a sentire che ritornare non mi sarebbe piaciuto. In proposito racconto sempre che quando sono arrivato a Volterra c'erano due condomini, un condominio libero abitato da casalinghe, operai, pensionati e di fronte a quello la “Fortezza”. Avrei potuto scegliere il primo non volendo lavorare con gli attori professionisti, ma evidentemente il carcere mi ha interessato di più. Pensavo al riguardo che nel carcere avrei potuto confrontarmi con persone ancora più estranee alla cultura teatrale e con le quali, appunto, avrei potuto ricominciare da zero, con un approccio diverso perché in quel momento cose come ad esempio la recitazione, il rapporto con la parola o la poesia nel teatro non mi coinvolgevano.

D: In questa tua scelta io vedo, o almeno interpreto dalle tue parole, una esigenza di verità, anzi di sincerità che tu ritenevi non potesse essere conseguita nel teatro 'tradizionale', altrimenti non si capirebbe la differenza. Non si capirebbe la differenza tra gli attori professionali e questi attori, perché di attori si tratta, che vengono dall'esperienza del carcere.

P: La differenza è una differenza in primo luogo estetica perché gli attori professionali sono comunque segnati da cliché, da modi di essere e recitare che vengono dalle esperienze delle accademie e delle scuole in genere. Invece quando io sono arrivato al carcere, che non conoscevo, anzi non avevo proprio idea di cosa fosse un carcere, mi sono trovato di fronte a corpi e voci enormemente lontani da quel mondo, un tipo di fisicità, di presenza, di vocalità del tutto diversi. Evidentemente questa era la cosa mi interessava. Ci sono certamente somiglianze con quella che è stata l'esperienza del neorealismo cinematografico, ma anche diversità che dipendono dallo sguardo di chi dirige e lavora con queste persone. È proprio la struttura del carcere e come questa influisce sulle persone che vi vivono, e dunque anche su chi lavora con loro, che fonda la differenza, in quanto è una struttura che rende la relazione anche esteticamente diversa. Ovviamente poi chi lavora con me da molti anni diventa un attore in quanto acquisisce e consolida un sapere specifico, ma quello che alla fine mi attirava lì era il carcere metafora della vita come prigione, e al suo interno quelle persone come rappresentazione e raffigurazione dell'uomo  prigioniero di sé e, di conseguenza, anche rappresentazione della mia personale prigione. Io poi gioco in senso teatrale con la realtà del carcere, con quella particolare condizione ma il fatto che sia un carcere vero quello che vede lo spettatore mentre rappresento il carcere come metafora, il fatto che gli attori siano veri e propri carcerati crea dei corto circuiti emotivi, creativi e significativi, tra me e loro, tra loro e gli spettatori, possibili credo e profondi solo in quel contesto. Così quello che nasce qui non è la stessa cosa di quello che dal mio lavoro nascerebbe fuori di qui.

D: Tutto ciò, a mio avviso, ha a che fare anche con la mia personale esperienza, con il mio amore e la mia attrazione verso il teatro, che trascende la mia stessa formazione accademica e la mia attività professionale, un amore ed un attrazione che discende dall'aver percepito momenti di autenticità e di sincerità, veri e propri lampi nel buio, quasi sempre attraverso il teatro, quando ovviamente trovo il vero teatro. Ora, quando mi è capitato di assistere a spettacoli del Teatro della Fortezza o anche partecipando ai laboratori di La Spezia per lo spettacolo di oggi, ho potuto percepire questi momenti di autenticità e sincerità. Per questo vorrei chiederti se nel tuo continuare a lavorare nel carcere, quasi con ostinazione, tralasciando altre occasioni cui potresti ora ambire, dipenda da sensazioni analoghe.

P: In realtà credo dipenda dal miracolo del teatro in quanto tale, dal miracolo dell'attore in scena, il momento cioè in cui una persona riesce a mettersi da parte per essere altro da sé. In questo c'è il teatro, questo è il teatro dove, in questo mettersi da parte dell'attore per essere un altro, si apre uno spazio di libertà nel quale poter ipotizzare e intravvedere l'uomo ideale, ciò che è una delle mie finalità estetiche. Perché, per quanto mi riguarda, non si fa uno spettacolo tanto per fare uno spettacolo, per rappresentare un testo o analizzare un autore, lo si fa avendo in mente di progettare l'essere umano. Per essere credibile con il tuo fare teatro devi necessariamente avere una idea di dove vuoi andare a parare. Nel teatro attuale è l'attore che può avere questa esperienza di allontanamento per riempirsi di una verità altra. La questione dunque per me è che, se questa apertura avviene in quel luogo, che è il luogo di massima chiusura, se avviene in quelle persone che vivono anche fisicamente quella costrizione, questo accadere rende maggiormente evidente e palese l'attrito tra libertà e prigionia. Se, al contrario,  questo processo avviene con un attore professionista è comunque meno 'visibile', anche perché una serie di inevitabili incrostazioni, quei cliché di cui parlavo, rischiano di trasformare il recitare in maniera, in manierismo nel quale quell'apertura si perde. Invece nel mio  teatro io ho alle spalle il carcere, il  luogo chiuso, e sono di fronte a  persone che sono costrette nella loro libertà personale. Pertanto, quando il miracolo si realizza, è molto più percepibile e intenso perché la fatica che fanno quegli uomini per allontanarsi da sé e liberarsi da sé è enormemente più grande, proprio per la oggettiva situazione di partenza. Poi ci sono altre cose che mi vengono dal carcere, ad esempio che io, come pochi registi in Europa, posso disporre di una compagnia internazionale, costruita su moltissime lingue e culture, che difficilmente potrei permettermi fuori. Inoltre  posso lavorare su tempi molto più lunghi rispetto al solito, tanto da essermi creato una vera e propria anomalia nei tempi di lavoro, che arrivano fino a due anni e oggi nessuno potrebbe permettermi tempi del genere. Così se da una parte pago dei prezzi alti per lavorare in quelle difficili condizioni, dall'altra sono un privilegiato potendo fare quello che ti ho appena detto. Comunque, per tornare a quanto hai accennato, io credo che quella percezione di sincerità non sia innata ma sia indotta attraverso il lavoro ed il contatto con il teatro. Io chiaramente sono più portato ad una idea di attore performer, più che ad un attore di formazione più classica  che si mette da parte per raccontare una storia. Il performer a mio avviso è invece in grado di lavorare in direzione di un sé diverso e, anche se raramente l'abbiamo dichiarato, è proprio questo il fine del nostro lavoro.

D: C'è un altro aspetto interessante nel tuo lavoro, il fatto cioè che gli attori-carcerati portano in scena un corpo segnato dalla loro esperienza esistenziale. Anche se non chiediamo di sapere la loro storia e la storia dei loro reati, comunque quei corpi sono quasi pagine scritte e quando recitano espongono, ognuno, la propria pagina, e questo è un elemento di teatro che costituisce già una differenza.

P: Se penso alla storia della compagnia, alle prime foto di Maurizio Buscarino, allora mi rendo conto che, da subito, io ho cominciato a lavorare su questa fisicità, su questi corpi, anche contro quello che vedevo nel teatro intorno a me, contro un normale corpo teatrale utilizzando al suo posto un corpo che neanche avrebbe dovuto salire in scena, sia per la sua diversità sia per la biografia che condannava quelle persone. Il tutto anche come forma di provocazione. In realtà io penso e ho sempre pensato che questo non basti e che non si possa pensare che sia sufficiente portare in scena  persone qualunque, non attori, per fare un teatro della 'realtà'. Dipende da cosa ci fai, da come li metti in scena. Se io, ad esempio, sono un grande visionario e utilizzo anche dei semplici cittadini per costruire in scena una visione e un progetto, allora questo è teatro. Io infatti cerco di usare il teatro non per portare in in scena la realtà ma bensì per allontanarmi da essa, altrimenti, io penso, non si fa teatro. D'altra parte, in un certo senso, suppongo di essere in parte anche io responsabile di questa situazione, in quanto ho consolidato una modalità estetica, un indirizzo teatrale che utilizza attori non professionisti. Così una volta visti i risultati molti si sono incamminati, in bene o in meno bene, su questa strada. Quando abbiamo cominciato a Volterra infatti non erano molte le situazioni, al di là degli esiti del neo-realismo, in cui si fosse cercato di lavorare con non professionisti a quel livello, per cui noi siamo, in senso lato, responsabili di aver sdoganato l'idea che bastasse portare in scena persone comuni per ottenere risultati di valore. Non è così. Non basta mettere insieme una decina di cittadini, facendo loro raccontare un po' delle loro esistenze reali, per fare buon teatro. Il problema semmai è l'opposto, è come sottrarsi alla realtà, non è come fare a farla rientrare dalla porta di servizio. Io non chiedo mai, ai miei attori, la loro storia personale, non metto in scena la drammaturgia delle loro vite, perché non è questo il mio ruolo né lo scopo del mio lavoro. Molti invece sono proprio interessati all'esoticità, per così dire, di queste esistenze spesso deviate, ai loro corpi segnati e esibiti ed, in effetti, oggi siamo spesso bombardati dall'esibizione di queste diversità, ma questa è televisione non è teatro.

D: Io però credo che l'attrattività e il successo di questo teatro, del tuo teatro, sia in realtà legata, anche in quelli che superficialmente sembrano attirati dall'esteriorità che hai descritto, al fatto che questi attori rappresentino noi, siano parte di noi, una parte magari oscura che riconosciamo in scena.

P: E' possibile, però dipende anche dalle singole situazioni. Io ho visto molto teatro fatto in carcere che andava in altra direzione eppure ho visto molta gente applaudire.

D: Certo negli ultimi tempi c'è stato un florilegio di iniziative le più disparate, ma credo che con i tuoi spettacoli, proprio per dove e come sono concepiti, ci sia la possibilità di un contatto con la nostra intimità più profonda. Un'altra domanda, però, vorrei proporti. Ho visto nei tuoi spettacoli un grande e suggestivo utilizzo di segni corporei e di simboli, ma essendo tu drammaturgo, anche la forte presenza della parola e del testo. Come lavori sul testo, come lo concepisci e lo costruisci? Lo fai in solitudine o insieme alla collettività dei tuoi attori costruendolo con loro e su di loro?

P: E' una domanda complessa. Posso risponderti che, semplicemente, io arrivo al testo al termine di un percorso. Ad esempio prendiamo Beatitudo il nostro ultimo lavoro. È cominciato tutto con un lavoro su Shakespeare che nacque da una occasione. In vacanza d'estate un mio amico, un poeta geniale, mi regala un libro su Shakespeare che, nonostante allora non ritenessi quello il momento giusto per Shakespeare, mi ha incuriosito profondamente. Era un libro, di cui non ricordo  adesso né titolo né autore, che in sostanza affermava che il nostro costituisse il vero e proprio 'canone occidentale'. Questo perché, secondo il libro, qualsiasi cosa, di teatro o no, possiamo pensare, a qualsiasi autore possiamo rivolgerci, da Becket a Pirandello e quanti altri, in Shakespeare già c'è. Ed in fondo sembrava e sembra avere ragione. Un saggio che, portando in proposito una quantità di riferimenti e citazioni, era dunque una esaltazione di Shakespeare come fondamento ineludibile della nostra cultura. Io più lo leggevo e più mi arrabbiavo. Ho dunque pensato che valesse la pena cominciare un ragionamento contro questo autore, o cooperativa o qualunque cosa sia stato, e contro tutto quello che ci ha lasciato in eredità. Forse non era così straordinario e valeva la pena pensarci. Certo ci ha lasciato opere immense e personaggi immortali ma questa immortalità è per noi una condanna perché sembra che noi non possiamo pensare di essere altro che quello. Dunque con la Compagnia abbiamo cominciato a leggere, ciascuno un suo testo e ciascuno inevitabilmente vi trovava una parte di sé, cosa che se vogliamo è bellissima ma in fondo può anch'essa diventare una gabbia, una gabbia abitata da 1200 personaggi. Se poi si afferma che quello è il canone occidentale e che lui è uno dei massimi filosofi dell'occidente, allora tutto ciò significa essere condannati a stare in quella gabbia. Abbiamo dunque cominciato a lavorare all'idea di come uscire, a partire dalla gabbia in cui lavoro, un carcere, e dalle persone con cui, lì, opero. Innanzitutto operando su queste identità che Shakespeare ci ha lasciato e su cui ancora ci si ostina a lavorare, trovandovi modi e significati della modernità. Ci siamo pertanto letti tutti e 36 i testi di Shakespeare e svariati saggi e volumi su di lui. Poi ho chiesto ai miei attori di scegliere, all'interno di un quadro di riferimento e di un contesto critico che proponevo loro, un testo. La domanda di base in sostanza era: <<è possibile sottrarsi a quella umanità che Shakespeare descrive, essere diversi oppure anch'io sono succube di queste identità che lui ha descritto? Posso fare qualcosa per uscire da questa gabbia?>>. Io non lo so, però ho cominciato a lavorare su questo. Gli attori hanno letto, e sono degli straordinari lettori, le loro parti e poi hanno scelto brani e frasi su cui soffermarci e su cui iniziare a comporre un canovaccio. Ad un certo punto di questo enorme lavoro ho iniziato però a domandarmi fin dove valesse la pena di condurre una campagna contro Shakespeare, contro un autore comunque straordinario che ha composto cose straordinarie. Così abbiamo cominciato a pensare di stare lavorando al trentasettesimo testo di Shakespeare, abbiamo cioè ipotizzato che sotto ogni testo conosciuto lui avesse concepito un testo nascosto, visibile solo a quelli che potevano percepire quel mondo non solo di pancia, nell'immediatezza cioè del sentimento. Prendiamo ad esempio Otello, la prima lettura vede e percepisce la tragedia della gelosia, ma una lettura estetica diversa può, secondo me, portare a qualcos'altro. In sostanza abbiamo ipotizzato che lui avesse celato in ogni sua opera un sotto-testo che solo chi andava oltre quella idea e rappresentazione di umanità potesse scoprire. Abbiamo così lavorato per due anni a uno spettacolo su Shakespeare che aveva l'intenzione e l'ambizione di allontanarsi da lui, il tutto attraverso il gioco scenico del capocomico che, dopo aver messo in scena chissà quanti Shakespeare, si domandava se era il caso di continuare su quella strada. Alla fine rimangono solo lui e un bambino, della cui presenza abbiamo ravvisato l'essenzialità e l'esigenza, il bisogno cioè di uno sguardo che, almeno dal punto di vista retorico, rappresentasse ancora la possibilità di una chance ovvero di un esito diverso. Alla fine dello spettacolo dunque il capocomico e il bambino lasciano quell'umanità conosciuta nella speranza di trovare qualcosa di altro e di diverso. Per arrivare dove? Così, ecco che nel bel mezzo di uno spettacolo contrastato e complesso come Beatitudo, è arrivato Borges, è arrivato nel momento in cui le domande si moltiplicavano perché ciascuno di noi si chiedeva se fosse capace di cambiare qualcosa di se stesso, se fosse veramente in grado di mettersi in discussione, di uscire da quello che era. E quando queste cose si dicono in un carcere diventano difficilissime. Shakespeare sembrava dunque avere ragione e ciascuno di noi, io e gli attori, sembrava non poter essere 'altro'. Poi, dicevo, è arrivato Borges cioè colui che, lo abbiamo insieme riscoperto, ha più di altri combattuto contro la realtà, colui che ha ingaggiato una vera e propria battaglia estetica contro la realtà attraverso il suo linguaggio, la sua scrittura. In Shakespeare ci trovavamo di fronte al reale, in Borges e attraverso Beatitudo potevamo tentare di uscirne, e lo potevamo fare appunto in negativo, cioè ponendoci delle domande diverse. Infatti io penso che se vogliamo rimettere in discussione il mondo che ci circonda dobbiamo cominciare a riformulare le domande.  Viviamo un momento in cui sembra non ci sia più niente da toccare, stiamo dentro una realtà all'apparenza  immodificabile, eterodiretta, sgomitiamo magari ma non riusciamo più a metterla in discussione questa realtà, in quanto siamo stati indotti a pensare che questo sia il mondo migliore possibile, anche quando vediamo i molti che vivono la loro esistenza nella più grande disperazione. Un mondo e una storia, dunque, in cui non ci sono più cambiamenti possibili, dove le più grandi rivoluzioni sono tutte fallite e quelle che stiamo vivendo, anche qui in Italia, sono nichiliste e catastrofiste. Sono idee e utopie, quelle che oggi si impongono, che non mettono più al centro l'uomo, che non pensano alla possibilità di un uomo diverso, ma solo all'eventuale aggiustamento  delle condizioni esterne. Io invece con il teatro lavoro per cercare di uscire dalle gabbie e per ipotizzare un uomo diverso. Pertanto, per tornare all'oggetto della domanda, gli attori selezionano, propongono, insieme facciamo associazioni e scoperte, io infine scelgo e organizzo, do il mio indirizzo, che è quello che ho cercato di sintetizzare. Così nascono, in questa maniera forse complessa ma partecipata e condivisa, gli spettacoli della Compagnia della Fortezza.

D: In proposito ti è mai capitato che, una volta rilasciato, uno dei tuoi attori tornasse a lavorare con te?

P: Sì, questo succede, è già successo ed è successo che alcuni fuori continuassero a fare gli attori di teatro e di cinema. Il meccanismo dell'uscita dal carcere è piuttosto complesso, per cui quando lavoriamo ad uno spettacolo dobbiamo lavorare anche ad uno spettacolo parallelo che tenga conto di quel meccanismo. Ad esempio nell'ultimo spettacolo ho cominciato con 86 attori ma non tutti possono uscire, per cui parallelamente abbiamo costruito anche uno spettacolo per le tournée, in grado cioè di essere accolto, per spazio e numeri, all'interno di un teatro all'italiana. Per questo ci sono ex attori della Compagnia che ritornano per sostituire in parti importanti compagni che ancora non possono uscire. È una cosa un po' anomala, ma loro spesso ritornano proprio per sostenere una idea, un progetto, per sostenere un qualcosa che rimanga anche dopo di loro, che rimanga anche per altri che li seguiranno. Sostengono e difendono la “Fortezza”.

La conversazione si chiude qui, significativamente, con il richiamo alla adesione ad un progetto e a un idea che va oltre, a mio parere, la stessa consapevolezza razionale perché, in un certo senso nasconde un mistero intimo ed una energia che si sprigiona solo nel contatto partecipato, siano attori e regista o siano gli spettatori. Un nucleo che, proprio per questo, non può essere contenuto od esaurito nelle definizioni più comuni applicate al teatro di Armando Punzo, legato e imprescindibilmente 'dentro' all'esperienza della Fortezza, del carcere di Volterra. Conoscendo più a fondo il suo teatro, e conoscendo Armando Punzo, si intuisce come definizioni quali “teatro sociale”, “teatro delle diversità” o addirittura “teatro delle disabilità” siano non solo insufficienti ma soprattutto fuorvianti. Infatti il mistero di quel teatro, quale si tratteggia nelle parole di Punzo, è il mistero 'del' teatro', è il manifestarsi in scena del miracolo della liberazione da sé e della contemporanea costruzione di sé, e quel miracolo può manifestarsi con più forza ed evidenza proprio nella condizione del carcere e dei suoi abitatori, sia nella concretezza di una condizione esistenziale che come metafora. È un teatro dunque che mette al centro e ha come obiettivo l'uomo, e in questo può suggerire l'esperienza di Grotowski e analogie con il neo-realismo. Il progetto nato a Volterra, man mano cresciuto per forza propria e man mano sempre più all'attenzione della critica e dell'accademia, più volte premiato, è così diventato con “Per Aspera ad Astra” un contagio, sostenuto e promosso da diverse realtà anche le più inaspettate, un contagio da diffondere per promuovere e difendere non solo un modo di fare teatro ma soprattutto il teatro stesso.

Foto Retroscena Sat2000