Mogadishu, di Vivienne Franzmann. Può la scuola formare la coscienza di un alunno quando anche la famiglia ha fallito? Sebbene un bullo sia  insicuro e manchi di vero affetto, è lecito rischiare di danneggiare se stessi per difenderlo? Davvero la punizione rinforza il sistema, tutelando vittima e aggressore o bisogna curarsi più del colpevole quando questi è “un alunno difficile”?

In una scuola pubblica al centro di Londra la professoressa Amanda viene aggredita da Jason, noto alunno di colore attaccabrighe, perché intervenuta a difesa di uno studente straniero preso di mira e pestato nel cortile. Amanda, al corrente delle difficoltà sociali del suo aggressore nate col suicidio della madre e preoccupata de “la realtà che lo aspetta a casa se venisse escluso”, preferisce non procedere legalmente; mentre Jason, per evitare l’ovvia espulsione dopo innumerevoli segnalazioni, architetta una serie di bugie e costringe la sua banda a sostenerlo nell’accusa di abuso razziale contro di lui ai danni dell’insegnante. Il complotto ha inizialmente successo, ma viene a cadere quando i ragazzi della gang non riescono a reggere le bugie. Jason, invece, sceglie di mentire fino alla fine anche davanti all’evidenza. Per lui non c’è redenzione. L’autrice, un’insegnate al suo primo spettacolo (che le è valso il premio George Divine Award nel 2010), mette in discussione l’efficacia dei metodi educativi e la formazione tanto dei figli quanto degli alunni. L’incidente dell’aggressione accade nei primi cinque minuti, portandoci subito al cuore dell’azione. Segue una narrativa lineare con un veloce intersecarsi di scene (ventisei in due atti). Le luci si abbassano di colpo quando il climax drammatico viene raggiunto alla fine di ogni scena e si rialzano all’inizio della successiva, enfatizzando il ritmo serrato e sempre incalzante che non da sosta allo spettatore. Il mondo di questa storia è comune a tutti e molto realista. Interessante la scenografia, che propone una “gabbia” ferrata tipica dei cortili della scuola visti nei film. Questa gabbia ruota o si alza ad ogni cambio di scena, fungendo ora da esterno, ora da pareti per la presidenza o la cucina dell’insegnante, fino a suggerire una metaforica gabbia creata da Jason e dalle sue bugie. Tuttavia, l’atmosfera riesce ad essere leggera: la scrittrice è molto astuta nel rendere digeribile un tema altrimenti abbastanza pesante, alternando alla gravità della vicenda la comicità degli scambi tra adolescenti che regalano al pubblico sonore risate al momento giusto. I personaggi sono incredibilmente reali, pur non stilizzandosi nella fissità di ruoli riconoscibili. Piuttosto, invadono la scena con una voce propria che li rende unici nel loro genere. È sorprendente che Jason non si confronti mai con Amanda. Forse il confronto alunno-insegnante sarebbe scontato e finirebbe col ricalcare a parole i concetti dell’educazione e della crescita, comunicati così abilmente attraverso l’azione drammatica. D’altronde, Jason si scontra già con suo padre che, nonostante le buone intenzioni, agisce con la stessa frustrazione e aggressività riflesse nel comportamento del figlio. È invece toccante la scena in cui Becky, figlia di Amanda e coetanea di Jason, decide di affrontarlo per difendere sua madre, giocando su un punto in comune: la perdita di un genitore. Solo in questo momento Jason, che mente davanti a tutti senza farsi scrupoli, ha un attimo di cedimento. Ma è la lingua usata dai personaggi la vera forza di questo spettacolo. È esattamente la lingua dei ragazzi del centro, la stessa cadenza, l’accento della strada, l’uso dello slang, la volgarità delle parolacce messe ovunque un po’ per sentirsi grandi e un po’ perché i ragazzi di alcune scuole pubbliche “ghetto” purtroppo non conoscono di meglio. Tutto ciò fa parte del realismo del pezzo e ne fa un lavoro provocante che inchioda lo spettatore. Mi colpisce positivamente la presenza di molti adolescenti stasera. Questa storia parla di loro e della loro vita e lo fa con le loro abitudini e le loro parole. Il Lyric è un teatro al centro della città che, sebbene si presenti come un ambiente tradizionale, predilige pezzi prevalentemente contemporanei con temi scottanti e provocatori. Promuove anche lavori diretti a diverse comunità etniche della capitale, offrendo una visione eclettica della città. Propone inoltre eventi legati agli spettacoli messi in scena, come serate in conversazione con gli autori e i registi delle performance del cartellone.