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Apparentemente costruito sui ritmi e sulle sintassi dialogiche di un dramma giudiziario, con conseguente e inevitabile colpo di scena finale, quest'ultimo lavoro dello statunitense David Mamet, e ultima produzione/regia di Luca Barbareschi che di Mamet è stato uno dei primi esegeti italiani, in realtà si ribalta man mano in una peripezia psicologica che si evolve e quasi si aggrappa a quei dialoghi tracimanti sulla scena. Sembra infatti che, il drammaturgo, il regista e noi spettatori in platea, ci si appresti a parlare di potere della stampa, di gogna mediatica che travolge uno psichiatra ostinatamente aggrappato ai suoi valori, ai suo giuramenti e alla sua deontologia professionali quando questi si rifiuta di testimoniare a favore di un suo paziente accusato di aver ucciso 18 persone. Ed effettivamente di questo discutono con sempre maggiore affanno e sempre maggior sofferenza interiore lo psichiatra e la moglie, l'avvocato e il giornalista, che si alternano in otto quadri anche figurativamente

apprestati come un ring per un combattimento all'ultimo respiro, un ring che ha un sopra/fuori ove scorrono le parole della società e della storia, ed un sotto/dentro ove la mente e lo spirito di un uomo che sembra aver recuperato improvvisamente la religione degli avi e la Kippah che la testimonia, si tormenta e si nasconde.
È efficace il testo drammaturgico e abile la regia teatrale a lasciare che tutto questo, concreta pulsione sociale che trasforma a sorte i membri di una comunità in capri espiatori di una colpa che sfugge, si impadronisca del nostro orizzonte significativo e simbolico creatore di miti, ma più efficace ancora a costruire un dubbio su cui tutto ciò appare come sospeso.
Così il processo rimane senza sentenza quando nel convulso finale scopriamo che è stato lo stesso psichiatra a restituire al giovane assassino la pistola con cui ha compiuto la strage, al termine di una seduta che scoperchia forse e suggerisce l'indifferenza e la sconfitta di una professione e chissà anche di una intera vita, come rimprovera la stessa moglie tentando il suicidio e confessando l'adulterio.
Ecco allora che questa vita e questa professione spesso idolatrata e altrettanto spesso aborrita, impaurite forse e aggrappate ai propri giuramenti e alle proprie leggi sempre più incerte e anche alle proprie religioni, sembrano, proprio attraverso di queste, mostrare un inaspettato, e fino a quel momento mascherato, cinismo, cambiando il senso della narrazione.
Il finto capro-espiatorio che fino allora avevamo creduto di vedere nello psichiatra si trasforma dunque e si sottrae arrivando a ribaltare, per paura, cinismo o indifferenza appunto, questo ruolo nel giovane paziente, sorta di demone in senso quasi religioso che forse chiedeva di essere fermato, per  riscattare e punire in lui la propria oscurità.
In proposito Renè Girard nel suo “Il capro espiatorio” scrive che “spesso i grandi scrittori  hanno dovuto fare ricorso al linguaggio dei demoni per sfuggire alla piattezza inefficace del sapere pseudo-scientifico della loro epoca e della loro storia”, ricordando più oltre come il tema del demoniaco unisca in sé sia la forza di divisione che la potenza ordinatrice del sociale.
Nessun colpevole e dunque paradossalmente nessun innocente in questo finto dramma giudiziario, amara riflessione e lucida analisi su una società in evidente crisi, riflessione e analisi che usano la narrazione come strumento tipico della migliore drammaturgia anglosassone.
Regia , come detto, e bella traduzione del testo come detto di Luca Barbareschi. In scena Lunetta Savino, Luca Barbareschi, Massimo Reale e Duccio Camerini, un cast dall'ottima prestazione.
Scene di Tommaso Ferraresi, costumi di Anna Coluccia, musiche di Marco Zurzolo, suono di Hubert Westkemper e luci di Iuraj Saleri.
Una produzione del Teatro Eliseo di Roma, di cui Barbareschi è direttore artistico, insieme alla Fondazione Campagnia dei Festival e Napoli Teatro Festival Italia, ospite del Teatro Nazionale di Genova alla Corte dal 12 al 17 Marzo. Accoglienza calorosa.