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Era il 1979 quando vide la luce e fu subito capolavoro. C’era tutto, l’Africa coloniale, la repressione sessuale, l’omosessualità e il femminismo, l’idolatria della patria. Caryl Churchill – oggi ottantenne - fu consacrata come coscienza critica della cultura anglosassone, provocatoria ma abilissima a non divenire mai indigesta. A distanza di quarant’anni, al Teatro Elfo Puccini (corso Buenos Aires, 33) va in scena “Settimo cielo” (fino al 12 maggio 2019), per la regia di  Giorgina Pi. E’ un tuffo nel passato, attraverso il tentativo di attualizzare tematiche calde di quegli anni per un pubblico moderno.
L’Africa coloniale è imbalsamata in un omaggio costante alla patria e alla Regina, rispetto alle quali lo stesso matrimonio diventa riflesso dei doveri del buon cittadino. L’omosessualità strisciante ma repressa diventa il simbolo dell’atteggiamento mentale di una nazione e di un’epoca, tutte tese a trasfigurare il reale perdendo il contatto con l’umano. Le donne, sacrificate sull’altare di cotanta

costruzione politica, scalpitano, soffrono, si innamorano e infine scardinano questo ruolo sociale così rigido che era loro imposto.
Cento anni dopo, nel 1979, cambia il contesto ma permangono le lotte. Matrimoni al capolinea  che cercano il riscatto attraverso la libertà sessuale, l’emancipazione gay che passa attraverso il sesso libero, la protesta sociale e il superamento del culto del passato.
Anche il linguaggio teatrale adottato pare voler compendiare le conquiste del secolo. Così il genere degli attori non corrisponde sempre a quello dei personaggi interpretati, mentre la scena esaurisce tutti gli spazi teatrali mettendo a nudo anche il dietro le quinte. Se gli attori non abbandonano mai la scena anche quando non sono in scena, essa è scarna, essenziale, più accennata che rappresentata. D’altra parte il far teatro del Novecento ci ha abituato spesso e volentieri a fare a meno del naturalismo a favore del simbolismo evocativo del gesto, del costume, del feticcio. E qui di feticci ce ne sono tanti, dalle foto della Regina ai simboli fallici apposti ai costumi, dalla gestualità sessualizzata ai dialoghi artificiosi di alcuni personaggi.
Due ore e mezzo di spettacolo scorrono veloci, tiene viva l’attenzione la capacità evocativa del tempo che fu. Lo spettatore consapevole dell’età del testo, si appassiona a come sia cambiato il mondo e a come certe lotte abbiano lasciato il segno profondamente. Oggi ai margini probabilmente ci sono soprattutto altre categorie sociali, ma emoziona vedere condensato in un breve lasso di tempo una storia tanto vivida come quella del costume sociale dell’ultimo secolo.

Ffoto di Futura Tittaferrante