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La scommessa oramai l’ho persa! I miei amici della compagnia insistono che io debba pagar pegno, e questo lo trovo del tutto giusto! Lo avrei preteso anch’io se avesse perso uno di loro, data la mia inflessibilità che li ha costretti più volte a pagare pegni anche pesanti. D’altra parte c’era ben poco da fare per evitare la sconfitta: a riprova che a teatro nulla va dato per scontato! Il teatro è un’arte dal vivo, che ha molto in comune con quella dei giocolieri, o degli acrobati: può accadere tutto senza poter più tornare indietro! Se non sei riuscito a commuovere gli spettatori durante una certa scena l’effetto non è recuperabile, ti è andata male, e non vi è stata, è evidente, una piena intesa fra scena e platea. Io, da parte mia, ero certo che nella scena in cui Pourceaugnac, il personaggio molieriano dell’omonima commedia, da me interpretato, viene attorniato dai falsi medici, immancabilmente gli spettatori ridono! E anche grazie ad un paio di micro gag a mio parere infallibili da me inventate. La scommessa che ho proposto consisteva nel provocare appunto il riso per diciotto delle venti repliche che la compagnia avrebbe tenuto, cioè per il 90 % delle volte. Ma proprio nelle ultime due repliche, durante quella scena, il pubblico del teatro di Spoleto è rimasto pressoché indifferente… facendomi schiattare dentro dalla rabbia, dalla sorpresa, dalla beffa ricevuta! Ed io son risultato così il perdente di una stupida scommessa! Tante volte mi son chiesto cosa avessi sbagliato durante l’esecuzione della scena, ma tanto oramai era andata! Non c’era più nulla da fare! Dovevo aspettare la comunicazione della “pena” che avrei dovuto affrontare: le nostre scommesse, come regola, prevedevano la comunicazione a posteriori del pegno, e, nel caso di rifiuto del perdente, questo avrebbe dovuto offrire una cena piuttosto costosa a tutti gli altri. Il fatto è che si dovrebbe sempre tener separato il teatro dai fatti della vita, e, invece, si è sempre attori, c’è sempre una teatralità al fondo dei nostri dannati caratteri!
Ormai l'inverno è arrivato, seppur mite a causa dei catastrofici mutamenti climatici, e di quella scommessa ho perso quasi il ricordo: dei colleghi, alcuni davvero amici, non ho recentissime notizie: nessuno si è mai fatto vivo a proposito della “pena” da infliggermi! Poi, in una mattina piovigginosa e con un cielo grigiastro, malinconicamente incolore e spento, che ti pesa sulla testa, arriva il postino che mi avverte della consegna di un pacco in forma di raccomandata assicurata, il nome del mittente essendo quello di Gigi Riccardoni, un componente della Compagnia di Monsieur de Pourceaugnac!
Lo apro, e trovo subito in evidenza il foglio, firmato da tutti i partecipanti alla scommessa, su cui i compagni mi ricordano del pegno che devo pagare senza remissione! Quindi mi metto a rovistare nello scatolo e tiro fuori alla rinfusa… due reggiseni neri imbottiti; due paia di scarpe nero lucido da donna; un set per il make-up, con matite, rossetti, lucidalabbra, fard, cerone tipo kryolan, n. 3 e 5, mascara; due tipi di smalto per le unghie; vari pezzi di intimo: calze nere trasparenti, collant più scuri, un corsetto, reggicalze, body, giarrettiere, slippini da donna; due parrucche, una nera a caschetto e una sul biondo, lunga; un tailleur rosso; e un paio di bluse con pantaloni intonati; alcuni gioielli di bigiotteria, vistosi ma raffinati; tre vaporizzatori di profumi di diverse gradazioni.
Ridendo già nell’immaginare la mia trasformazione, e a quale supplizio quei birboni hanno voluto sottopormi, apro subito una busta con le indicazioni precise di quale azione ho da svolgere come penitenza: la bravata, solo così la si può chiamare, deve svolgersi on the road, precisamente sulla via Salaria, dove staziona in genere un folto gruppo di prostitute e trans, nei pressi del piccolo aeroporto dell'Urbe: non devo far altro che appostarmi vicino a loro, in attesa… Un paio di compagni, travestiti, si sarebbero appartati nei pressi, girando tutta la scena con una telecamerina, in modo che la sera stessa avrebbero proiettato il girato durante la cena prevista per festeggiare la piena riuscita della “condanna”. Al momento opportuno un terzo mi avrebbe fintamente “agganciato” e portato via con l’auto. L’unica raccomandazione, davvero seria, che mi viene fatta è di evitare di farmi avvicinare da uno dei papponi, come si diceva una volta in una Roma ormai inesistente, famoso per andar matto per i trans davvero eleganti, dai modi raffinati, diversi dai colleghi più corrivi nei confronti della clientela; infine leggo la misura di sicurezza che, bontà loro,  hanno previsto, grazie a delle entrature in Questura: assieme a tutti noi ci saranno due amici ufficiali di polizia, in borghese ma con le tessere personali di identificazione del Ministero Interni, e le pistole di ordinanza ben celate sotto la giacca! I compagni burloni mi danno una settimana di tempo per provare il trucco e scegliere il giusto abbigliamento: il gusto dell’avventura, coltivato fin da ragazzo, la teatralità in me radicata anche sulle scene della vita, mi spingono con curiosità ad andare avanti.  Nelle loro note sono ricordate alcune regole da seguire per una perfetta trasformazione: son quelle del nostro truccatore e costumista di fiducia, com’è per noi naturale. Tra le altre:
1   depilarsi con molta attenzione gambe braccia e se occorre anche le mani;
2    preferire abbigliamento in rosso che rende bene le forme ed è elegante;
3   controllare che la giacca del tailleur sia una misura più grande della gonna essendo il busto maschile più largo di quello femminile;
4   depilarsi il petto alla perfezione nel caso si vogliano indossare abiti scollati;
5   tenere la massima cura nel trucco del viso, la parte più scoperta e da subito visibile: è molto importante passare la matita sopra e sotto le ciglia, quanto più vicino al bordo per allungare la forma degli occhi, partendo da vicino al naso e man mano affondando la matita senza esagerare; usare poi un ombretto di tonalità chiara, preferibilmente di color marrone; infine usare il mascara ben intonato con tutto il resto.  Particolare attenzione va tenuta per le labbra: passare la matita sui contorni, appena fuori il bordo naturale; scegliere un rossetto permanente, e anche il lucidalabbra; mettere poco fard sulle gote;
6   intonare bene il colore della parrucca;
7   indossare bracciali larghi che nascondono la conformazione maschile delle mani, e se nel caso indossare guanti coprenti fino al polso.
Sono seduto di fronte allo specchio in camera da letto, con tutto l'occorrente inviatomi per il trucco. Quasi mai, in teatro, ho messo particolare cura nel truccarmi: in genere ho affrontato parti realistiche piuttosto che grottesche o fantasiose. Comunque seguo con scrupolo le indicazioni per poter verificare il risultato di tutta l'operazione di make-up; penso poi di scattare alcune foto all'immagine di me truccato riflessa dallo specchio, usando anche il macro per i dettagli: gli occhi; la bocca; le labbra in particolare, muovendole nel dire qualche battuta inventata con toni e timbri di voce il meno maschili possibili; infine mi fotografo con la parrucca indossata. Tutte queste operazioni le svolgo con tale precisione controllo e attenzione che non ho tempo di pensare all’aspetto sicuramente punitivo in eccesso del pegno, a riflettere sulla pesantezza anche psicologica a cui mi sto sottoponendo in ossequio ad uno scherzo che nella sua esagerazione non poteva che essere stupido, mortificante, e pericoloso. Che razza di imbecilli e superficialoni! Poi però mi vien da pensare anche alla mia cocciutaggine, al mio voler essere sempre all’altezza delle situazioni, al mio desiderio di fare, nonostante tutto, bella figura e di non essere inferiore a nessuno! Son sempre stato convinto che questi miei aspetti del carattere son venuti fuori man mano durante l’infanzia e la fanciullezza, sono il retaggio di un’educazione piccolo borghese, tutta incentrata sul dovere, sull’apparire in linea con quello che la società chiedeva, che la politica voleva, che la Chiesa s’aspettava. Per un omosessuale come me, tutto ciò mi è pesato davvero molto!
Vado al PC, scarico le foto, e mi metto ad osservare e studiare le varie pose, una per una, e la mia bocca disegna un sorrisetto. Rivedo le immagini, ma c’è un qualcosa che m’infastidisce e, addirittura, vedendo e rivedendo qualche fotografia, m’inquieta. M’inquieta l’occhio bistrato che occupa tutto il campo della fotografia. O le labbra rosse come le bacche estive nei campi. O ancora il dettaglio di un mio orecchio al cui lobo un orecchino pesante di bigiotteria emana riflessi verdastri.
Inizio ad innervosirmi, e a mandare a quel paese i compagni a cui ho proposto la scommessa; ma, ancor di più, me la prendo con me stesso, pensando che con tutta evidenza il mio carattere merita certe punizioni! Immagine per immagine mi sento sempre più sdoppiato, estraneo alla mia persona e personalità, artificialmente espropriato di quella che è proprio l'icona fondamentale che ognuno ha di se stesso. Di nuovo ripercorro le foto: in un caso mi vedo come un pupazzo, tipo quelli esposti nei baracconi del tirassegno delle fiere; in un altro intravvedo, come fosse un simulacro, le fattezze del volto di mia madre, e la fantasmatica somiglianza mi agghiaccia! In un altro ancora mi vien da pensare, rabbrividendo, che la forma del mio viso truccato prefigura quello di una sorella che non ho avuto, un mio fantasmatico doppio al femminile; e penso a quante volte avrei desiderato avere una sorella tutta per me. In un dettaglio scattato sugli occhi mi par di vedere mio padre che mi guarda, come di sbieco, in segno di rimprovero, e provo un senso di schifo nei confronti di me stesso. Una foto in particolare, poi, mi riporta alla memoria un amico, di cui mi innamorai fortemente, truccatissimo da mignotta, in una festa di carnevale durante la quale rischiò di perdere la vita in un gravissimo incidente: giungemmo al pronto soccorso e lui era disteso incosciente sulla barella ancora con quel trucco che faceva della sua faccia una maschera grottesca! Temei di perderlo!
All'improvviso il monitor diviene ai miei occhi un vorticoso caleidoscopio di volti baconiani: franti, scomposti, chiazzati da macchie indistinte di colori... Devo sforzarmi a non perdere il contatto con la realtà, stacco gli occhi dal monitor del computer e prendo con rabbia il latte detergente, mi strucco impiastricciandomi il volto, mi reco allo specchio vedendo il mio viso divenuto come informe!... Mi siedo, madido di sudore, e all'improvviso m’immagino  già travestito,  con le calze di nylon, il finto seno dell'imbottitura del reggipetto, le scarpe nere dai tacchi alti: mi vedo passeggiare sul bordo sudicio e senza marciapiede della Salaria, appena rischiarato dalla luce lattiginosa delle lampade al neon dei pochi e mezzo rotti lampioni, vicino a povere e poveri disgraziati, per lo più penosamente schiavizzati, confuso tra loro, ascoltando una babele di voci straniere, e sentendomi scrutato ed esaminato dagli automobilisti italiani che rallentano, e che mi chiedono il prezzo! E penso a quegli stronzi dei compagni che magari ridacchiano alle mie spalle, e mi sfottono nascosti dietro qualche macchina, o qualche muretto, facenti parte di quel paesaggio desolante e disumano.
Mi dico: no! Non posso farlo! Non posso accettare una simile e per me volgare pagliacciata! Uno scherzo da poveri dementi! Penso che preferisco spendere  piuttosto alcune diverse centinaia di euro, e per una magari ottima cena! E poi basta con quelle stronzate di scommesse!
Mi convinco, buttandomi sul divano che sono il mio stomaco, il mio animo, il mio intuito, il mio sguardo interiore a dire di no! E penso che quella pagliacciata sarebbe un’offesa crudele e sciocca sia nei confronti di quelle persone ridotte a vivere e sopravvivere ai bordi di una consolare, o statale romanoide, notturna e desolatamente semibuia, sia del teatro stesso, di quel poco di vero e autentico la nostra professione di attori ancora conserva e difende: sul ciglio di quella statale, combinato nel modo che i miei compagni m’imponevano, sarei stato davvero un campione di falsità; una falsità del tutto gratuita, utile solo a far ridere un gruppetto di persone superficiali,  mentre su un palcoscenico noi viviamo, con tutti i nostri travestimenti, e sentimenti, una finzione: è grazie a questa, rifletto, che possiamo inventarci e magari riproporci  nuove vite vere, da immaginare, da inseguire, da vivere! Possiamo inventare, immaginare, per poesia teatrale, piccoli universi che ci cambiano il modo di pensare, di vedere le cose, di fare le grandi scelte dell’esistenza! Per sola verità di poesia della scena! Penso convintamente e commosso che noi attori dovremmo convincerci che, al pari di chi scrive, dipinge, compone uno spartito musicale, siamo dei creatori di poesia, col nostro corpo, con la nostra voce, con le nostre storie che intrecciamo ogni sera con gli spettatori, in un teatro, luogo di sguardi magici, di apparizioni fantasmatiche, di visioni da incubo o da sogno! Come ciascuno vuole, e preferisce…