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Cosa c'è, se c'è, oltre l'esistente? È questa io credo la domanda che Armando Punzo ha cominciato a porre a sé stesso e ai suoi attori, giunto alla soglia dei trent'anni di attività teatrale all'interno della Fortezza carcere di Volterra, una attività che, insperatamente forse, e contro quasi tutte le aspettative di chi vi era attorno, ha prodotto con i suoi spettacoli-ricerca una estetica singolare, diversa dal consueto non tanto nelle sue modalità quanto, io credo, nelle sue aspettative. Transitato in un certo senso tra Scilla e Cariddi, tra Beckett e Shakespeare, il regista-drammaturgo della sfida ad un esistente recluso e soffocante, in-umano prima ancora che dis-umano, e si parla non del carcere ma del mondo fuori dal carcere, cui il carcere offre una inaspettata sponda metaforica e simbolizzante, è approdato ad una spiaggia che si apre su orizzonti sconosciuti. Cosa c'è dunque oltre l'uomo quale siamo abituati a conoscere? L'uomo formato e costruito nei limiti della storia e della convenienza, l'uomo della gelosia e della violenza, l'uomo della sopraffazione cui ci siamo adattati ed abituati e che, anche nelle forme magiche create su di lui dal mago Shakespeare, dà

disagio.
Così l'uomo del teatro ed il bambino di oltre La tempesta hanno voluto girare le spalle alla mimesi di quel mondo, e dopo aver incontrato il Borges delle mille realtà sovrapposte e contrapposte, oltre la realtà unidimensionale e anche oltre il sogno quando le imprigiona, si affacciano a qualcosa di più profondo e inesplorato ma anche così prossimo da non poter essere visto da occhi ormai affetti da cronica presbiopia sentimentale e psicologica.
È dunque uno spettacolo che si avvia verso il nostro mondo interiore per scoprire se questo ancora custodisca i segni di un luogo diverso, i segni forse di quel paradiso perduto, di cui tutte le culture sono impregnate e da cui siamo stati cacciati in “questo” mondo, in “questa” storia, in “questo” esserci che ci fa quale siamo ora.
Un paradiso perduto da cui ricominciare una nuova genesi, da cui riscrivere cioè un nuovo libro con nuove parole ancora sconosciute, come direbbe Borges, per trovare noi stessi abbandonando noi stessi.
Punzo, dunque, con questo suo nuovo spettacolo, come sempre in perenne costruzione ed elaborazione, esplicita come non mai un lavoro di silenzio e di sottrazione, di demolizione e di ricostruzione, un viaggio per la cui meta tutto dobbiamo abbandonare.
Un viaggio dalle suggestioni dantesche, senza la forza della fede e della ragione che guidava Dante, ma con lo stesso coraggio, perché Punzo e la sua Compagnia “non sanno”, o meglio non sanno ancora e ancora non sanno cosa c'è di fianco alla nostra umanità, alla nostra storia, cosa scorre parallela alla nostra vita.
In questo suo muoversi come un collettivo cieco veggente, le parole e la musica emergono quali scogli, ovvero come cippi stradali o stelle che indicano il cammino, mentre gli attori sopportano trasformazioni e trasfigurazioni di cui i bellissimi costumi sono l'evidenza estetica che cattura il nostro sguardo.
Uno spettacolo affascinate, dalle sintassi anche distopiche al modo della fantascienza di Philip K. Dick, che si dispone a suo agio negli spazi della Fortezza e che ad un certo punto si fraziona quasi a costruire nell'evidenza scenica la pluralità delle realtà che si propongono a noi, solo che cominciassimo a guardare veramente e non solo ad assistere alla nostra vita quale fosse un film etero-diretto ed etero-prodotto.
In questo suo frazionarsi la drammaturgia offre spunti e stimoli inconsueti, come quando, nelle celle della ex sezione di massima sicurezza Armando Punzo deterge e bagna una figura velata il cui panneggio ricorda il partenopeo Cristo velato, ovvero quando improvvisi si aprono momenti di poesia segnati dal sale, simbolo straordinario di vita e insieme di morte.
Uno spettacolo che è difficile descrivere, uno studio ouverture che appunto si apre su qualcosa che è ancora sconosciuto ma non per questo è meno attraente, anzi produce su di noi tutti, drammaturgo, attori e spettatori, una forza di gravità inconsueta.
È parte tutto ciò, io credo, di quella estetica singolare di cui dicevo e che si è sviluppata nel lavoro teatrale con i detenuti di Volterra, proprio perché come mi disse Armando Punzo in una recente intervista, tanto più grande è la liberazione della mente, quanto più si è consapevoli della forza della sua attuale prigionia, e chi più dei reclusi è in grado di produrre quella consapevolezza e la forza necessaria ad alimentarla.
Un lavoro che richiede tempo e produce tempo, il tempo necessario a capire, e che forse questa volta andrà oltre i due anni consueti e concessi.
Alla fine di questo transito che tutti ci ha riguardato, intenso e anche fisicamente faticoso, infatti forse si hanno ancora più domande che risposte, ma insieme si sentiva la consapevolezza e la felicità di un approdo possibile, quell'approdo che, negli auspici di Armando Punzo e dell'intera sua Compagnia, ci transiterà dall'Homo Sapiens all'Homo Felix.
È stata comunque una esperienza profonda e condivisa.