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Esiste, io credo, nel mondo contemporaneo, cosa che inevitabilmente ha cominciato a contaminare e condizionare anche il mondo del teatro, una vera e propria idiosincrasia per il “mistero”, inteso ovviamente nella sua più ampia accezione estetica, quasi che tutto debba essere illuminato e messo allo scoperto, fin denudato, perché ci sia una risposta sempre, ad ogni domanda. Invece spesso in questo oscuro che sta dentro il mistero c'è una verità, una sincerità che non va dimostrata o spiegata, basta mostrarla con la forza concreta del gesto che fonda e inonda la parola, perché si mostri all'occhio che guarda, quando vuole guardare, e all'orecchio che ascolta, quando vuole ascoltare. Sorge così il dubbio che tutto questo illuminare sia un modo per nascondere e allontanare la vita da noi e noi dalla vita. Questo scrisse, a proposito delle domande e delle risposte, a suo tempo Stefano Pasquini: “A me, quando uno mi fa una domanda, io di solito rispondo, anche perché è cortesia

rispondere quando uno ti fa una domanda. Delle volte rispondo sì. Delle volte rispondo no. Rispondo più volte sì che no, ma questo è un altro discorso. Però nel momento in cui rispondo non so con precisione perché accetto o rifiuto. Forse sono un po' tardo, ho bisogno di tempo per capire, forse, il perché delle mie scelte. Siccome questa volta ho avuto molto tempo per pensarci io credo che allora noi abbiamo accettato per il valore assolutamente antieconomico della proposta.”
Al contrario Le Ariette questo mistero, il mistero della vita e della morte che scorre dentro di noi lo vogliamo o no, lo custodiscono, coltivandolo direi all'interno di questa loro doppia creatività, il preparare il cibo ed il narrare, che si armonizza nel rito del mangiare, del guardare e dell'ascoltare condivisi.
E in questo loro ormai trentennale vivere la vita antica del “contadino” per capire e carpire la vita moderna che esce dalla civiltà del pane, in pericolo o forse già perduta, hanno finalmente incontrato il percorso parallelo di Luigi Dadina, l'attore delle Albe che dalla sua recitazione, dal suo mestiere (un mestiere come tanti altri direbbe sua madre) ha cominciato ad attingere e approfondire quei valori antichi che, suo malgrado direbbe, lo hanno formato.
Due modalità del narrare che si sono avvicinate e assomigliate nel concreto procedere della vita e nell'affastellarsi delle memorie che fanno la storia e le storie, prima e dopo gli abbandoni provvisori e gli addii mai definitivi, perché sembra di capire che, in questo, anche la morte non è mai un punto fermo.
È nato così questo intenso spettacolo che, preservando sensibilità e specificità di ciascuno, le amalgama,, quasi come la buona pasta fatta in casa, nel segno di una comune suggestione, quella di Pier Paolo Pasolini.
Un Pasolini peraltro poco frequentato, quasi sormontato dal Politico e dall'Artista lucido e anticipatore, un Pasolini poeta di Casarza e delle campagne del suo Friuli, il Pasolini dello sguardo sul mondo contadino che andava abbandonando forse con malinconia ma senza rimpianto.
Due grandi tavolate sul palcoscenico del Teatro Rasi a Ravenna accolgono il pubblico, al centro la cucina ove Stefano Pasquini, Paola Berselli, Maurizio Ferraresi e Luigi Dadina preparano i tortelli triangolari secondo la ricetta della madre di Gigio. Pane, formaggio, vino narrano la storia di una civiltà millenaria in declino (come quella di e del Petrolio?) e le storie singole prendono le parole dei quattro cuochi che transitano in scena.
Contingenze e coincidenze, famiglie che costruivano la propria identità nello scambio affettivo, nei sogni e nelle delusioni, nelle speranze che i figli portavano su di sé. Al centro, quante volte lo dimentichiamo, l'amore come motore di quelle speranze e di quei sogni, concreto come il cibo e fatto in casa come il pane.
Uno spettacolo semplice, o semplicemente bello che ha momenti anche di comicità da Circo Ballotta e momenti di grande partecipazione e commozione, come quando Paola, sulle note di una vecchia canzone, attraversa tutto il palcoscenico  sorridendo, solamente sorridendo e salutando con la mano, ma così trascinando uno mondo di affetti che troveranno dopo, nella parola, la loro narrazione.
A legare come un filo rosso i vari momenti le letture di Pasolini e André Frénaud da parte di Paola e Luigi su un leggio che unisce, nel rito in corso, la falce e il martello con una Madonna Bizantina ed il suo Bambino.
Così il cibo, quando è condiviso e consumato nel rito collettivo del reciproco conoscersi ed appartenersi, diventa la chiave per sondare il mistero che è in noi e per riconquistarlo nella consapevolezza che la parola può darci.
Stefano, Paola e Maurizio sono in questo ancora una volta straordinari, ma colpisce ancora una volta la presenza scenica di Gigio Dadina, quasi affettuoso nel suo offrirsi allo sguardo e all'ascolto degli spettatori, mentre tra nostalgia e ironia, tra speranza e riso lo spettacolo e la cena si concludono con i “rituali” tortelli.
Buon cibo dunque, affetti e racconti in comunione, il calore della vicinanza in questo lavoro coprodotto dal Teatro delle Albe e dal Teatro delle Ariette, di Paola Berselli, Luigi Dadina e Stefano Pasquini, con Paola Berselli, Luigi Dadina, Maurizio Ferraresi e Stefano Pasquini. Regia di Stefano Pasquini e collaborazione di Laura Gambi.
Al teatro Rasi di Ravenna dal 17 settembre al 2 ottobre per essere poi ripreso a novembre al Teatro della Fattoria delle Ariette in Val Samoggia.