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È l'ultima fatica drammaturgica, 1959 anno della sua morte, di un vulcanico inventore o meglio scopritore di mondi, sospesi tra la lirica destrutturante e la narrazione dissacrante, tra la suggestione musicale figlia dell'amore per il jazz e la distopica rappresentazione di un presente, il suo ma anche il nostro, che non gli piaceva e non lo nascondeva. Una contemporaneità in cui la voglia di vivere, anche smodata talora, sembra affondare nel tanfo paludoso della morte che ci sovrasta, che ci richiama in continuazione ed alla quale non riusciamo in alcun modo, definitivamente imprigionati, a fuggire. Parliamo ovviamente di Boris Vian, francese eclettico, eterodosso e figlio di molte patrie artistiche, e di questa sua drammaturgia che Emanuele Conte ha scelto di riproporci, nella traduzione di Massimo Castri, passati sessant'anni e non li dimostra. Una drammaturgia che mette in scena qualcosa che sta tra l'ascesa o la caduta, una caduta ascendente verrebbe da dire, di una famiglia (della

Famiglia?) borghese: padre, madre e figlia con annessa “servant” che, in fuga da un rumoroso preavviso, sale di appartamento in appartamento in un anonimo stabile con un unico immutabile vicino, perdendo qualcosa ad ogni passaggio, stanze, oggetti e anche, man mano, membri della famiglia stessa.
Con loro lo Schmurz, nome senza significato se non nella sua paradossale ma capace onomatopea, segreto nascosto e negato o capro espiatorio di colpe non dette, che in forma di uomo subisce le violenze fintamente liberatorie del capofamiglia, della moglie e, obtorto collo, della governante. Unica che dichiara di vederlo, e per questo non può colpirlo, è la figlia, barlume di una coscienza morale in dissoluzione.
Alla fine ne rimane uno solo, come in un thriller o in un film di fantascienza mistica, rimane il padre alle prese, nella soffitta appesa ad un cielo vuoto, con la ricerca di un sé identitario ormai dissolto sotto le maschere sociali. I suoi fantasmi, fumi residui di quella dissoluzione, lo condurranno alla morte.
Narrazione dalle molte vie, di entrata e di uscita, in cui l'angoscia spadroneggia, appiccicandosi quasi ad ogni angolo dello spazio e ad ogni movimento del tempo, che la regia di Conte ben organizza con un taglio tra l'ironico e il grottesco che consente alla scena, latu sensu, di sopportarne il peso e allo spettatore di discernerne il senso.
L'uso delle maschere poi, molto ben fatte e come al solito estremamente espressive, in un scenografia che lo stesso Conte costruisce fedele alle indicazioni del testo ma con una libertà di interpretazione che le valorizza, consente infine quell'impercettibile slittamento che apre al significato intimo della narrazione.
In proposito anche la recitazione en travesti di alcuni, all'ombra della maschera, accentua l'effetto di straniamento e slittamento nello spettatore, impedito così a scivolare in interpretazioni preconcette e in consuetudini enfaticamente consolatorie. Il tutto sotto il segno della Giduglia patafisica (la scienza delle soluzioni immaginarie ), del cui collegio Vian è stato membro, a decorare con vivacità le maschere stesse.
In scena il bravissimo, come sempre, Enrico Campanati è il Padre e attorno a lui si muovono, fino al difficile, recitativamente ma anche psicologicamente, monologo finale, tutte le figure della narrazione, interpretate altrettanto efficacemente da Pietro Fabbri, Susanna Gozzetti, Sarah Pesca, Graziano Sirressi e Alessio Aronne.
Maschere Ruben Esposito, costumi Daniela De Blasio, luci Matteo Selis, collaborazione artistica Luigi Ferrando, assistente scenografa Renza Tarantino, assistente alla regia Alessio Aronne.
Una produzione Fondazione Luzzati – Teatro della Tosse di Genova, alla sala Trionfo dal 16 al 27 Ottobre. Molto apprezzato.

Foto Donato Aquaro