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In via più generale, dal punto di vista estetico e critico, la giornata di venerdì 15 mi ha riportato alla mente un fenomeno molto contemporaneo che va consolidandosi, a volte oltre una esplicita consapevolezza, in molti artisti e drammaturghi anche italiani. Quello del portare in scena persone cui la vita ha imposto difficoltà fisiche anche accentuate, persone che non rispondono ai 'canoni' e che dunque non dovrebbero, nel pensare consueto, essere sulla scena. È un fenomeno che ha radici antiche e che, a mio parere, ha trovato una prima moderna sistemazione nella concezione dell'artuadiano teatro della crudeltà, intendendo in questo l'esporre con crudezza il vero, interno od esterno che sia, ma che oggi si colloca in un rapporto paradossale con una contemporaneità che ci sommerge di immagini virtuali nel culto di una presunta perfezione. Ci immerge in questo mare di immagini che però, alla fine, si rivela una palude di menzogne che si sovrappongono in continuazione alla nostra identità più profonda, trascinandosi in una sorta di indistinto esistenziale. Diventa dunque, questa azione scenica che ha in Pippo del Bono piuttosto che nella Sociètas Raffaello Sanzio ma

non solo, una evidenza nota, un atto di sincerità, un recupero di quella singolarità che a ciascuno appartiene e che, nell'incontro scontro con il suo anche crudo palesarsi, può essere recuperata se non addirittura ricostruita.
Questo lo spettacolo, in cui la performer protagonista è in scena in quanto performer e non per altro, che ha scatenato, e non solo nel critico ma, credo, anche nel pubblico presente al teatro Akropolis, questo affastellarsi di suggestioni.

IPHIGENIA IN TAURIDE. Ich bin stumm/Io sono muta
Ifigenia, nella percezione del mito antico, è il capro espiatorio che si sottrae al sacrificio e, ancella di Artemide, diventa, nella solitudine della Tauride, giudice inflessibile di quella stessa società che si voleva attraverso di lei liberare del male. Di questo male, ribaltandolo, comunque si fa carico intrecciando la sua presenza/assenza con riti di rigenerazione e di ritorno alla luce e all'ordine che sono dentro le storie dei suoi fratelli Elettra ed Oreste. In essa vi è la vita che va avanti mentre la memoria si stratifica. Lenz Fondazione, per sua programmatica dichiarazione, affronta il mito antico indirettamente mediandolo con le suggestioni dell'Ifigenia romantica di Goethe, che esplicita il percorso di sincerità, percorso come circondato dalle intense e liberatorie musiche di Gluck, ma soprattutto, credo, attraverso la suggestione dell'azione scenica di Joseph Beuys “Titus-Iphigenie” del 1969. Dentro questo percorso, una sorta di mappa tra eco, rimandi e ricadute simboliche, la danzatrice Monica Barone, la cui singolarità nella diversità è capace di diventare metafora della singolarità che fonda il nostro esserci di sentieri heideggerianamente segnati nella foresta, affronta il recupero di sé nei luoghi che hanno visto la frattura e la cesura con il mondo. È un ritorno in un mondo nuovo ma che, dentro di lei, è sempre esistito, inconsapevole forse,  ha da sempre bussato alla coscienza. Un percorso che ce la fa compagna, più che guida, perché i suoi passi, sovrapponendosi, diventino i nostri. Una vera e propria drammaturgia, fatta in un certo senso di parola pensata ma non detta, originale nella sua capacità di trasfigurare eventi e personaggi dell'arcaico narrare fino a porgerli alla nostra sensibilità e consapevolezza. Come scrisse Antonin Artuad a Barrault, a proposito dei “Sette contro Tebe”:  “ci sono un Mito pressoché ricostituito, oggetti magici e un linguaggio di un'alchimia assai curiosa. Il tono c'è. L'azione c'è. La poesia, il terrore sotterraneo del vero tragico...torna agli dei sotterranei. Ossia alle forze innominate che s'incarnano quando sappiamo coglierle”. Al fondo, una narrazione dello sguardo femminile, declinata da una compagnia in prevalenza al femminile, anche nello staff tecnico. Testo e imagoturgia: Francesco Pititto. Installazione, regia e costumi: Maria Federica Maestri. Con la  intensa Monica Barone. Notazioni coreografiche: Davide Rocchi. Cura tecnica: Alice Scartapacchio. Prouzione Lenz Fondazione, con il patrocinio di Goethe-Institut Mailand.

Foto di Maria Federica Maestri