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La sala era in tutto esaurito, la “storia di un'amicizia” coinvolgente, la recitazione di alto livello e alla fine il pubblico ha a lungo applaudito. Potrebbe chiudersi (e aprirsi) così l'intervento critico e forse lo stesso Thomas Bernhard, se potesse e volesse conoscerlo, ne concorderebbe perché ogni sua scrittura, sia, questa, narrativa in prosa ovvero drammaturgia monologante, si mostra sintatticamente come un muro di parole eretto per separare, per dividere, così da tollerare narrandola, ponendosi cioè in un altrove linguistico ed estetico, l'angoscia ed il nulla di un esserci di cui non si riesce a rintracciare il senso. Perché, come scrisse il filosofo Aldo Giorgio Gargani, l'opera di Bernhard è “la più potente e drastica domanda di senso  del nostro tempo, così estrema da porre perfino se stessa in discussione”, nel mentre “dà voce al più potente strazio e alla più struggente commozione che si levano dal destino degli uomini”. Ogni suo scritto, è dunque una sorta di allontanarsi da sé e dagli altri

ed il teatro, anche per opere di prosa come questa, efficacemente tradotta e adattata, un luogo di demistificazione che sta di fronte alla vita ed essendone il contrario, tra finzione e verità, pienamente può rappresentarla, pur se solo come citazione.
Ed il pubblico mostra con il tempo di adattarsi, quasi cauterizzato nella sua ferita dalla continua e ritmica reiterazione di quelle citazioni, di quell'universo incavato e speculare in cui la vita, se mai avesse avuto una speranza, va a perdersi.
Eppure, all'interno di questo universo immobile, claustrofobico e beckettiano, sbattuto in faccia alla spettatore fin quasi alla sua narcosi e insensibilità, qualcosa si è insinuato in questa drammaturgia, in questa narrazione/muro, e ha aperto brecce in cui si percepisce una qualche affettività, quasi un sentimento che arricchisce quell'amicizia, che è l'oggetto/soggetto del suo transitare, di uno spessore psicologico, all'insegna di un comune malessere, quasi fosse un po' di terra tra i mattoni per far attecchire la vita.
Il racconto, semi-autobiografico, dell'amicizia tra lo scrittore malato e Paul Wittgenstein, nipote del grande filosofo Ludwig e scosso dalla pazzia, diventa così l'occasione, forse, per interrompere la fuga.
Entrambi carichi di una profonda delusione, storica, familiare ed esistenziale, condividono un male, il male di esserci, che ha preso in ciascuno forme diverse, nell'uno fisiche, nell'altro mentali, ma sovrapposte come i luoghi del loro incontrarsi e talora fermarsi, fino al rimorso finale per una assenza imperdonabile.
Un varco aperto in una drammaturgia tagliente ma dalla scrittura ritmica e quasi consolatoria che l'interpretazione maiuscola di Umberto Orsini, che questo testo ha scelto e sviluppato sulla scena già da molti anni, coglie efficacemente facendone strumento di un inatteso comunicare con il pubblico.
Una produzione della Compagnia Umberto Orsini, da Thomas Bernhard. Traduzione di Renata Colorni, adattamento e efficace regia di Patrick Guinand. Con Umberto Orsini affiancato ad Elisabetta Piccolomini le cui appena accennate contro-scene consentono un po' di respiro alla narrazione, come la finestra continuamente aperta e chiusa. Scene di Jean Bauer.
Al teatro Duse, ospite del Teatro Nazionale di Genova, dal 19 al 24 novembre. Dell'esito della serata ho riferito già in apertura.