Una premessa alle considerazioni su Misery, spettacolo scritto da William Goldman dall’omonimo romanzo di Stephen King, visto alla Sala Umberto di Roma per la regia di Filippo Dini, anche in scena insieme ad Arianna Scommegna. Che senso ha mettere in scena, oggi, un romanzo tanto celebre di un autore tanto celebre reso ancora più celebre da un celeberrimo film? Che senso ha mettere in scena un thriller di cui conosciamo la trama i presupposti l’epilogo senza nemmeno due effetti speciali per provare a stupire o almeno far finta? Ha senso se il testo viene affrontato alla stregua di un classico, cercando dentro le parole la loro ragione: necessaria e sufficiente. Ma bisogna essere bravi e i due attori lo sono. Molto. Non aggrediscono il testo con un’idea pregressa altrimenti chiamata chiave di lettura, in cerca di ragioni bizzarre per metterlo in scena al di là della storia. Per esempio dimostrando in un modo o nell’altro che Annie è stata violentata nella culla e porta i segni del trauma
di cui non ha memoria ma hai voglia le conseguenze, oppure che Paul è orfano di madre e nella sua soccorritrice ritrova il grembo materno. Non serve. Stephen King non lo dice, non lo lascia nemmeno supporre e quindi se vuoi fare Misery fai Misery e basta, senza inventarti una scusa.
E’ una specie di Edipo, Misery, e Edipo non ce l’ha il complesso di Edipo, o di Medea, o di Fedra. O anche di Amleto, di Faust, che se sei bravo le idee le trovi lì dentro, non occorre arrivare da fuori.
Basta leggere quanto c’è scritto e lì, casomai, trovare la chiave: nelle parole, nella relazione tra due sconosciuti che improvvisamente si trovano in uno stato di dipendenza reciproca; nei rumori di una casa isolata, nelle attese e nei silenzi pieni di insinuazioni e sospetti; negli stati emotivi da restituire al tempo presente, e sono tanti e sono incalzanti; nei pensieri di un uomo appena uscito dal coma e finito nelle grinfie di una serial killer, ché non è vero che non esistono i matti. Esistono eccome.
Per chi non conoscesse la storia, sappia che il protagonista è uno scrittore di successo divenuto famoso per avere creato il personaggio di Misery, di cui la sua aguzzina, che lo ha anche salvato da un incidente stradale e ne rivendica il gesto, non può fare a meno. Misery, quindi, non deve morire (si intitolava così il film di Rob Reiner che è valso a Kathy Bates l’Oscar e il Golden Globe). Ma siccome il suo autore l’ha fatta morire bisogna trovare un escamotage per riportarla in vita.
O vive Misery o muore Paul. Pare essere questa la sola alterativa. Sostanzialmente è la trama di una storia che è piena di suspance e di colpi di scena.
E la scommessa è raccontartela facendotela vivere come se l’ascoltassi per la prima volta. E se abbocchi vuol solo dire che ci sono riusciti. Ma non sei tu il pollo. Sono loro i prestigiatori.
Se almeno una volta hai trattenuto il respiro, hai pensato sbrigati fa in fretta che sta per tornare, se hai sperato senza renderti conto che il bicchiere di vino non si rovesciasse sul tavolo, che la carceriera soggiogata non si accorgesse di nulla, non trovasse il coltello accuratamente nascosto sotto il materasso, non gli rompesse le gambe con un colpo di mazza, se hai tifato per lui anche un solo secondo perché, d’accordo, lo capisce anche un bambino che non ce la fa, ecco, se ti è successa una sola di queste cose, allora loro ce l’hanno fatta.
Si chiama catarsi o anche solo emozione, e quando arriva torni a casa contento e ringrazi gli attori che ti hanno dato una mano.
Prestigiatori tanto quanto l’autore che ti fa amare i suoi personaggi e te li fa desiderare ‘alla follia’.
Come succede all’Annie di Arianna Scommegna che è gigantesca: cambia registro in una frazione di secondo e sono sempre registri estremi, precisi, che se ti sbagli di poco rischi la farsa. E invece un bel po’ di inquietudine te la mette davvero. Dini attore è sempre sincero, e gli credi anche quando sceglie di essere ironico. Come regista ha fatto un lavoro sui tempi sorvegliatissimo, cogliendo tutte le possibili occasioni di comicità, che pure ci sono e non sono poche. Accanto a loro Carlo Orlando, nel doppio ruolo dello sceriffo e del giornalista intervistatore nella terza parte.
Le scene di Laura Benzi si muovono su una pedana girevole assai funzionale a restituire i diversi ambienti –camera, cucina, esterno- ricreati con un pittoresco realismo. La camera in cui Paul è relegato, per esempio, ricorda un po’ la camera di Van Gogh, e non sarà un caso.
Al buon esito concorrono i suoni e le musiche di Artuto Annecchino, adeguatamente inquietanti e le luci di Pasquale Mari, utili anche ai cambi di scena. La traduzione di Francesco Bianchi è moderna e immediata.