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Aiutare a sentire, a essere nel momento, con qualcuno dentro. Questa triade di espresse aspirazioni è uno dei passaggi nodali della recita di Alice Giroldini nelle vesti di LADY GREY. Personaggio eponimo dello spettacolo diretto da Marco Maccieri e prodotto dal Centro Teatrale MaMiMò di Reggio Emilia: città dove ha debuttato a metà novembre 2019, presso il Teatro Piccolo Orologio. Una messinscena composta intorno a nodi di sofferenza introspettiva e fisica, intessuti dalla solitaria protagonista su una trama spezzata di pregnanti interrogativi e tentativi di risposta, secondo la prismatica drammaturgia dello statunitense Will Eno. Dalla quale irradia un nomade esporsi e raccontarsi della donna lungo diverse fasi della vita e tra agognati essere ‘o non essere’. Un digressivo trip, da cui promana un’assenza di consolazioni alle sue pene di «relitto mai amato» e, comunque, tenacemente in cerca di un Sacro Graal d’amore che ne colmi e suggelli l’identità malferma e, in

fondo, senza nome: giacché sperso è il suo didentro, quasi fosse nel mezzo di un’offuscata zona grigia (come da allusivo titolo dello script) ove è arduo orientarsi e trovare riconoscimento.
La Giroldini, allora, avvolta nel luccichio nervoso di un costume inargentato, effonde pertinenti tocchi d’ambiguità ghignante attorno al verde dei suoi occhi sormontati d’azzurro; alla stregua di un femminile Joker che pare evocare quello cinematografico incarnato di recente da Joaquin Phoenix. Personaggio altrettanto disorientato, sofferente e interiormente divagante; altresì ravvisabile nei tratti dell’attrice per il lieve biancore steso sul viso, i capelli ben tirati all’indietro e la vena provocativa, volentieri sarcastica, di svariate sollecitazioni che rivolge al pubblico. Il quale, nel blando arancio di luci accese in platea, la osserva e ascolta «in educata assenza di reazioni» mentre lei lo incalza provando a scuoterlo, o a spiazzarlo, tramite improvvisi scarti recitativi e repentini silenzi; peraltro amplificando spesso al microfono digressioni ulteriori ed esibendosi in estemporanei numeri di vario genere, interrotti da dichiarazioni di scacco oppure frustrazioni e persino cattiverie: recanti, tuttavia, nuovi «perché» sui fondamenti della «nostra vita maledetta».
La mano registica di Maccieri accompagna con delicatezza la brulicante materia; ne accarezza il franto esprimersi con la tenuità di un lunare manto, teso dall’alto, al centro del palcoscenico: dove, sopra un tondo tappeto d’indistinti ghirigori, sta una grigia poltroncina su cui latitano i riposi e le tregue che l’irrequieta figura potrebbe concedersi. Ma troppa è l’ansia della Lady di esibirsi e mostrarsi, di farsi vedere e notare in codesto suo andirivieni tra «la somma delle forze che resistono alla morte» e consistenti, cioè, nel vivere. Tanto che, fra le righe, traluce pure un’amara metafora dell’attuale smania di visibilità ed esposizione di se stessi: una voga oggigiorno fomentata da torme di monitor, visori e display che rifrangono di continuo selfie, ‘instagrammi’ e simulacri, a scapito però di effettive prossimità di corpi, soggettività e relazioni palpitanti. Quando agli animi degli individui smarriti, invece, basterebbe anche solo l’intensità di una vicinanza senza troppi diaframmi né schermi, alla quale aggrapparsi nelle derive e incognite del divenire.
Ed è brava, quindi, l’interprete a restituire il premere di simili impulsi e urgenze di sensitive prossimità, innervando la sua recitazione di fremiti e punte concitate che la sospingono oltre la quarta parete, per interloquire appunto da vicino con gli spettatori. Un modo di recitare, altresì, che a fronte di un testo difficile da addensare in scena – sfrangiato com’è nel suo andamento – consente di rilegarlo e compattarlo agli occhi e all’attenzione dell’uditorio, affinché quest’ultimo vi resti ancorato e non si perda nell’obliquo zigzagare di temi e questioni in multiplo gioco. Dal canto suo la regia puntella la performance con inserti sonori di assorti violini, voci lontane di bambini ed elettronici ceselli di note e sospiri; avvalendosi sovente di pigmentazioni dell’atmosfera che, dal viola al blu ad azzurre chiarità, condensano lo sdipanarsi cangiante del monologo in aure cromatiche di intimismi in espansione. Finché divampa, infatti, un solare bagliore alle spalle dell’attrice che ne incenerisce l’argentea figura e cioè, per traslato, ‘il personaggio’. Cosicché rimanga solo la persona, nella sua depurata essenza; il suo vivo “esserci” di brace ardente: spogliata alfine di arti e parti da esibire nella recita coattiva dei ruoli sociali, per esporsi semmai all’infinito soffio del ravvivarsi di ogni istante. Dove, «negli spazi bianchi» tra l’uno e l’altro, scorre il vero rifulgere segreto di ciò che si può sempre diventare. Un mistero così vasto e colmo di istanze che, al di là di qualunque dolorosa impasse e sbandamento, chiama senza posa ciascuno di noi all’avventura straordinaria di scoprirlo e dargli finalmente luce.

LADY GREY
(con le luci sempre più fioche)
di Will Eno.
Traduzione: Elena Battista per BAM Teatro.
Regia: Marco Maccieri.
Interprete: Alice Giroldini.
Produzione: Centro Teatrale MaMiMò.
Reggio Emilia, Teatro Piccolo Orologio, 15-17 e 23 novembre 2019 (visto il 17).
Spettacolo in distribuzione. Prossimamente, tra gli altri, al Teatro del Tempo di Parma (“teatrodeltempo.it”). Per ulteriori informazioni, notizie e materiali, si veda il website “mamimo.it”.

Foto Nicolò Degl'Incerti Tocci.