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Una drammaturgia capace di guardare fuori e non solo dentro, facendo cioè del fuori la griglia per poter giudicare il dentro, quel groviglio confuso che la nostra attualità continuamente proietta nella nostra intimità, e che la nostra mente 'riflette' senza riflettere, senza elaborare quasi affidandosi ciecamente alla confusione. Acida, nera e cattiva ma insieme malinconica e quasi ingenuamente nostalgica di ciò che si è perduto ma non si ricorda più avendolo perduto, una drammaturgia che usa la commedia come schermo della propria disperazione ed il riso come uno strumento chirurgico, che ama la scrittura e sa raccontare storie, quella drammaturgia che, soprattutto nel mondo anglosassone dagli “arrabbiati” in poi, semplicemente fustiga senza giudicare. La giovane drammaturga inglese Sam Holcroft si pone senza difficoltà in questo solco, senza però abbandonare, della sua formazione, quella certa freddezza sperimentale del biologo con le sue cavie, magari sentimentali ma sempre distanti. Più che una commedia un esperimento dunque, che ricorda i processi di quella psicologia “dinamico-comportamentale” tanto amata dagli anglosassoni, stampati nella carne viva di un

racconto di uomini e donne rinchiusi in quello che è il massimo laboratorio sociale e psicologico di questi anni, il suo vero e proprio punto di caduta, il “Pranzo di Natale” ove tensioni e frustrazioni di ciascuno sembra raccogliersi per esplodere.
È questo il luogo della messa in campo delle soggettive e poco condivise “regole per vivere”, prescrizioni di cui siamo anticipatamente fatti edotti come da note a un manuale, che ciascuno di noi elabora talora per sopraffare, talora per sopravvivere, sempre per sopportare una vita che non riusciamo più a capire ma che non cessiamo di desiderare.
Regole per vivere e regole per giocare come in quel sintomatico ed enigmatico gioco di carte, ovviamente “manicomio”, che è una sorta di notazione ulteriore di questo strano sperimentalismo psicologico, che ha poco a che fare con la psicoanalisi classica ma che ha in sé, io credo, la stessa sintassi del teatro e della commedia, il fare per essere, e quindi è capace di produrre, come poche altre situazioni, comicità e risate.
Bastano pochi slittamenti psicologici tra l'uno e l'altro personaggio, il patriarca malato, la madre vestale del silenzio e dell'indifferenza, i due fratelli eterni incompiuti e le loro donne alla ricerca illusoria di ciò che non c'è, oltre il velo dell'apparenza e della recitazione, per creare un ambiente dalle molte suggestioni.
Una commedia agra che trascina ma nel contempo inquieta, che diverte ma lascia il fastidio di vedere in quei soggetti sperimentali la sintassi del nostro esistere, per elaborare il quale ormai non basta più una scrollata di spalle.
La bella traduzione di Andrea Paravidino a sua volta drammaturgo tra i più apprezzati, quasi una riscrittura, ne esalta gli aspetti amari e attraverso citazioni e rimandi appropriati fa sbarcare quel mondo ai nostri lidi mediterranei che, forse, se ne vorrebbe esente.
Buona la regia di Antonio Zavattieri che riesce a rendere claustrofobica una scenografia aperta, e ottima la recitazione dei protagonisti, non facile tra tic e rimandi continui che richiedono tempi e pause ben articolate.
Sono nell'edizione genovese: Lisa Galantini, Alberto Giusta, Davide Lorino, Orietta Notari, Roberto Serpi, Mariella Speranza e Caterina Tieghi.
Scene di Luigi Ferrigno. Costumi di Alessandro Lai. Luci di Michele Vittoriano. Video di Lorenzo Letizia.
Una produzione Gli Ipocriti Melina Balsamo, Teatro Stabile di Verona in collaborazione con Teatro Ambra Jovinelli, ospite del Teatro Nazionale di Genova, al Teatro Duse dal 14 al 19 gennaio. Teatro pieno, molte risate e lunghi applausi anche a scena aperta. Segno che la drammaturgia scritta da autori contemporanei è più gradita al pubblico di quanto mediamente si creda.

Foto Lanzetta/Capasso