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A Sergio arriva la notizia, da parte di alcuni suoi colleghi, che il loro comune Maestro non sta per niente bene. Sia per il clima piuttosto freddo e molto umido, sia perché inizia ad essere davvero vecchio, mantenendo comunque una invidiabile lucidità mentale, e coltivando sempre i suoi più importanti ed essenziali riferimenti culturali, e spirituali. Uomo a suo modo religioso, in odor di eresia specie per gli ecclesiastici cattolici di Santa Romana Chiesa, il Maestro ha educato all’arte teatrale più generazioni di attori e registi, e per tutti è stato anche un maestro di vita, tout court. La sua preparazione, e la sua vicinanza anche alle filosofie e alle religioni orientali hanno plasmato il suo carattere sempre di più, affinandolo nei suoi modi, addolcendolo nelle maniere di porsi verso i suoi allievi, al punto da risultare un pedagogo teatrale di indiscutibile valore.
Sergio decide così di andarlo a trovare, nonostante il Maestro sia febbricitante per una brutta bronchite causata forse dai primi freddi.
Gli stringe fortemente la mano dicendogli: “Maestro, non facciamo scherzi, eh?”. E lui, con un pudore commovente:
“Vedi caro Sergio come sono ridotto?... La malattia ci umilia, ci riporta sulla terra... chissà, forse sulla nuda terra!” e ride, un riso forse forzato, forse amaro  “e così capiamo di non essere onnipotenti, e di dipendere dagli altri “.
E Sergio, dandosi un tono di ilarità scherzosa:
“Guardi che lei per me, e non solo per me, è un immortale! Non c'è malattia che tenga, assolutamente!”.
E lui, parlando con un respiro piuttosto difficoltoso:
“Sergio caro... la morte è un passaggio obbligato, è l'ultimo lavoro assai faticoso che la vita ci chiede... E lavoriamo anche per gli altri, sai? Per lasciare spazio ad altri che verranno dopo! La vita, che non è nostra, continua oltre le nostre individualità. La morte è la negazione definitiva del nostro ego... quindi del nostro radicato egoismo. La natura stessa ci obbliga a lasciare questa terra, appunto... naturaliter, a far posto a chi ci segue, al di qua di qualsiasi nostra moralistica considerazione”.
Il suo bene amato discepolo lo guarda, prendendogli la mano, gli dice spontaneamente:
“Come fa ad essere così sereno?”.
“Lo sono, e basta, perché spiegarlo? Certo che, o adesso, o a una delle prossime infermità, me ne dovrò andare, e cerco di prepararmi, di essere pronto, ma non dico che sia facile, eh?, non dico che umanamente il mistero che ci attende non impaurisca! Ricordi? Leopardi lo ha chiamato appressamento alla morte...”.
Ridendo  Sergio gli dice con tono decisamente assertivo:
“Sono certissimo che da qua a cent'anni, quando sarà, a lei non l'aspetta di certo l'inferno!”.
E lui, prontamente, col suo dolce e luminoso sorriso:
“E chi lo sa? Ma io credo che il vero inferno sia pensare che non ci sia un inferno: sarebbe come lasciare spazi infiniti e liberi al male!”.
“Tutto sta ad accordarsi su cosa sia male, cosa sia inferno!”.
“E chi lo sa veramente? Lo stesso male e le sue ragioni d'esistere sono un mistero in definitiva! Da più di due millenni ci affanniamo a capire, anche con l'aiuto della ragione... c'è il male come malattia... come catastrofe naturale... come destino personale infausto negli accadimenti del vivere...”, gli aumenta l'affanno, “come male storico... con tutti i progrom ... le persecuzioni, le pulizie etniche, e via dicendo: è quella che Hegel ha chiamato la macelleria della storia!”.
E Sergio: “Qualcuno afferma che solo  le leggi e il loro rispetto, pur cambiando, mutando, a seconda del tempo storico, delle civiltà, dei caratteri antropologici, possono porre una barriera al male!”.
“Certo, naturalmente! Ma ci sono anche altre leggi, quelle della morale, dell'etica.  Dovremmo sforzarci, in un mondo globalizzato ad individuare un'etica condivisa, non imponendone una unica e superiore: tale compito è lungo e difficile, esige apertura mentale, direi anche sentimentale!... D'altra parte quella che i Vangeli definiscono la dimensione dell'amore, o sta fallendo da millenni, o l'umanità non l'ha mai davvero vissuta!”.
“Eppure penso che ci siano alcuni principì, diciamo naturali, validi per tutta l'umanità, come diverse Carte dei diritti hanno sancito negli ultimi due secoli, anche laicamente.”.
Entra nel salotto la moglie del Maestro portando due tazzine di caffè, bevanda preferita pazzamente dal Maestro, meglio se accompagnata da un tocchettone di cioccolata fondente. Il Maestro dopo un primo sorso, riattacca la conversazione, come rinfrancato: “Il primo dei quali è il diritto di ogni creatura alla vita: ma io credo che ogni creatura ha la sua vita, e assieme partecipa alla Vita, perché “toccato” dalla Vita, come ogni essere vivente, a quella trama cosmica dell'esistenza, nella quale ogni uccisione, o soppressione di singole vite, costituirebbe uno strappo irrimediabile, anche il più minuscolo. Come avviene quando si tira, spezzandolo, anche un solo filo dell'intreccio multicolore di un arazzo, o di un tappeto, rovinandone il loro disegno già tracciato dalle mani di un sublime artigiano.”. La conversazione s’interrompe per qualche secondo, giusto il tempo si sorbire il loro caffè, e Sergio fa: “ Si, si, capisco, si potrebbe affermare che se non ci fossero dei valori limite, assoluti, che trascendono i singoli individui, non resterebbe che l'homo homini lupus!”.
“Certamente, si tratta di leggere la trama del nostro vivere andando oltre il nostro ego: siamo persone che s'intrecciano a persone, e viviamo in stretto rapporto con il cosmo, con la natura, oggi si dice… con l'ambiente…; e, aggiungo che, secondo me,  possiamo intuire una verticalità che ci conduce alla Divinità, che  sull’asse verticale, appunto, è scesa anche dentro di noi, è luce interiore per tutti! D'altra parte nessuno anche se lo volesse potrebbe crearsi le regole etiche a propria misura: occorrono dei fondamenti!”.
Dopo un attimo di silenzio Sergio aggiunge: “Il primo dei quali, quindi, è il senso del Divino, la fede in una dimensione verticale infinita!”.
“E chi non ha una fede? C'è chi crede, che so, al denaro, chi al potere, chi crede di non credere; chi crede alla laicità; chi crede che non si debba credere in qualcosa; e così via. Io comunque penso, detta così alla spicciola, che la morte di Dio abbia portato più guai che vantaggi.”.
“Naturalmente” aggiunge Sergio “si tratta di comprendere cosa o chi s' intenda per Dio.”.
“Naturalmente! Ma senza strumentalizzarlo, senza farne un Idolo! Secondo me Dio lo si “sente”, più che capirlo, di determinarlo, come se fossimo anche noi dei piccoli Dei. Lo si può intuire, con l'occhio dell'intelletto, quello che per gli orientali è il terzo occhio: è un mistero, “il” mistero!”, dando alcuni colpi di tosse, “Ma non mi piace un Dio monolitico, solitario, distaccato, mi piace il Dio trinitario, come lo è in molte delle antiche religioni, delle tradizionali fedi. Poi si tratta di distinguere, senza separare, la fede dalle credenze. E di confrontare liberamente e con rispetto le varie credenze fra loro.”.
“Però Maestro” quasi sussurra arrendevolmente Sergio “che orizzonte desolato abbiamo dinanzi a noi!  Mi domina     a volte un sentimento di catastrofe imminente! Nessuna fede mi pare che ci possa salvare.”.
“Si, ci stiamo giocando i destini del mondo e dell'umanità! Tutto può accadere, anche che trionfi il male, con tutta la sua rovina: perché se il male in sé è un mistero, e ci ricorda i nostri limiti di comprensione, i suoi effetti invece son bene evidenti e concreti. E ne percepiamo molti, specie nella nostra attuale fase storica. E sono fin troppo evidenti!”.
L'affanno del vecchio Maestro si fa piuttosto pesante, ancora una volta la sua generosità e il suo spendersi per gli altri va ben oltre il suo proprio interesse: Sergio capisce che lo deve salutare, con un lungo, delicato e amorevole abbraccio. Lo lascia così con un nodo alla gola. Cosicché Sergio cammina con un incipiente, subdolo senso di disorientamento: non riesce a tracciare le coordinate del suo agire, dove esso lo porta, e se c'è un punto fermo da raggiungere. Ha il presentimento che il suo Maestro di vita, di relazioni umane e affettive, di rapporti professionali e amicali, nonostante la sua incredibile lucidità e vitalità mentali e spirituali, sia ormai preda di un visibile e grave deperimento fisico. E percepisce poi in se stesso un sottile senso di vanità, una punta acuminata di disinteresse che lo penetra nel cuore, un tedio profondo che investe lo spazio dei suoi interessi artistici, e del suo lavoro teatrale.
Arrivato a casa ripensa alle parole dell'amato vecchio maestro, immagina la sua morte, il suo congedo dal mondo, da tutti, da tutti loro, anticipando un lacerante dolore; poi pensa alla sua di morte, e la identifica con una sorta di catastrofe cosmica, con una apocalisse, di qualsiasi forma ed esito costituita, innanzi tutto personale, sentendola come uno strappo inguaribile. Si chiede se sia possibile che tutto svanisca, che abbia ragione chi interpreta negativamente l'Ecclesiaste: che tutto sia in noi e per noi vano!? Prima di stendersi sul suo divano verde oliva preferito, prende un libro di un grande filosofo-teologo, donatogli dal Maestro, e legge, bisbigliando:
“Noi siamo gocce d'acqua. Che cosa ne è della goccia d'acqua quando muoio? La goccia scompare. Cade nel pèlagos infinito. Scompari? Ma che cosa sei tu, in realtà, la goccia d'acqua oppure l'acqua della goccia? Durante la nostra vita mortale, noi dobbiamo realizzarci come acqua, e non soltanto come goccia. La goccia è il luogo delle mie lotte, delle mie cadute e delle mie vittorie – di tutto quello che mi causa gioia e sofferenza in forma immediata. Ma se mi realizzo in maniera autentica, se sono all'ascolto della realtà che sono in profondità, io sono acqua. Che cosa accade dell'acqua quando la goccia cessa di esistere? Niente. Essa non cessa di essere quello che è. La goccia cade nel mare, ma l'acqua tuttavia non scompare. Quest'acqua, certo, non posso più differenziarla dall'esterno; ma, vissuta dal di dentro, quest'acqua non cessa di essere acqua – la “mia” acqua, l'acqua che io sono. Quest'acqua è unica. Nessun pericolo di dissolvermi. È qui il mistero della personalità, che non va confusa con l'individualità.”.