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Per lunghi anni un anziano signore catanese ha percorso moltissimi chilometri con la sua bicicletta, risalendo dalla piana di Catania fino alle pendici dell’Etna: la gente ha sempre raccontato che questa figura, tenera e malinconica, scomparsa da poco, percorreva quella lunga strada da anni. L’uomo, ormai anziano e malato, ricurvo sul suo amato mezzo, spingeva la sua bicicletta senza salirci sopra, anche sotto la pioggia, nel traffico delle strade a scorrimento veloce, per inseguire un sogno e un ricordo d’amore mai sopiti, nonostante la scomparsa di una donna che non aveva potuto sposare. Questa storia, realmente vissuta, diventa esempio per ricordare che la metafora del viaggio-vita è costante nella fantasia e nella psiche dell’uomo, sin dai tempi più antichi, ed è ancor più poetica e malinconica quella legata al viaggio della vita attraverso una bicicletta. Questo mezzo, come tanti altri oggetti di scena impregnati di profonda valenza semantica e drammaturgica, diventa il terzo personaggio di questo spettacolo e subito viene in mente la storia vera dell’uomo siciliano che ogni giorno percorreva una lunga strada per arrivare sulle pendici dell’Etna. Non a caso il titolo,

FERROVECCHIO, descrive l’entrata in scena della bicicletta arrugginita, sbilenca e cigolante, appartenente ad uno dei due personaggi — chiamato, appunto, L’uomo della bicicletta — che ne descrive la sua funzione risalendo fino ai tempi in cui viveva il nonno. In realtà la lingua siciliana, riproposta in questo spettacolo non solo nella sua natura arcaica e, quindi, ancor più intensa da un punto di vista scenico e linguistico, riporta anche oggi, l’appellativo “ferrovecchio”, traducibile con la parola “catorcio”; ciò che è più interessante, soprattutto all’intero di questo spettacolo, è l’utilizzo di “ferrovecchio” come appellativo di persona, così come ancora oggi scherzosamente viene utilizzato. Se definiamo “ferrovecchio” qualcuno, nella comune tradizione linguistica siciliana, ne offendiamo la vitalità: in questo caso, il ferrovecchio non è solo il titolo dell’intero spettacolo o la bicicletta arrugginita, ma rappresenta soprattutto la caratterizzazione del secondo personaggio, il barbiere, in riferimento al suo vissuto, metaforicamente inteso come uomo-catorcio, colui che non serve più alla società.
In scena presso il teatro Piccolo Bellini di Napoli dall’11 al 16 febbraio, il testo firmato da Rino Marino, autore palermitano, fondatore della compagnia Marino-Ferracane (Fabrizio Ferracane), quest’ultimo presente in scena nei panni dell’uomo con la bicicletta, e direttore della compagnia SUKAKAIFA, composta da pazienti con disagio psichico (Marino è infatti laureato in Medicina e Chirurgia, con specializzazione in psichiatria), nasce nel 2010 e debutta sulla scena nel 2011. Le ambientazioni ricordano sicuramente la messa in scena de LA MALAFESTA, esattamente ad un anno dal debutto di quest’altro testo, presso il Piccolo Bellini di Napoli: la luce calda, corredata di forti chiaroscuri sostenuti dalle luminescenze vibranti della candela, l’oscurità da cui fuoriescono i personaggi, il lampadario da bottega calato dall’alto, tutto è costruito nell’ottica di una caratterizzazione decadente, disturbata, “trapassata”, del luogo e dei personaggi. I luoghi immaginati da Marino sono personaggi essi stessi, così come gli oggetti: dalla bicicletta, alla statua del santo, al pennello e alla bacinella utilizzati per l’ultima rasatura. Il luogo, infatti, è un vecchio salone da barbiere, la cui natura e caratterizzazione sembrano dipanarsi solo in un secondo momento, come se l’idea definitiva affiorasse anch’essa dalle ombre di un passato ormai sepolto. In realtà la storia del barbiere costretto a chiudere per aver compiuto uno sgarro ad un personaggio noto del paese non dovrebbe essere descritta all’interno di una recensione, togliendo, così, il gusto della visione di uno spettacolo che si sofferma solo in ultima istanza sulla storia di fondo. La suspence e la curiosità, elementi tenuti accesi durante tutto lo spettacolo, ma soprattutto la malinconica aura che avvolge i due personaggi, emergono, invece, prepotentemente, sin dall’inizio. La malinconia, infatti, sembra essere costante, posandosi sulle vite dei due protagonisti e sugli oggetti, caratterizzando gli spettacoli e i testi firmati da Marino. I due personaggi, posti in coppia, secondo una costante consuetudine della drammaturgia contemporanea siciliana, appaiono come due aspetti di una stessa indole e conducono il loro dialogo, surreale, grottesco, ma profondamente poetico, all’interno di un ambiente che incarna una vita. I rumori, i colori, il vocio, sembrano elementi impressi nella mente dei due protagonisti, ma in realtà, il mondo esterno sembra essersi addormentato o dimenticato di quel luogo, di quella strada, di quel paese. Il buio incombe dietro i vetri opachi della porta della bottega, così come la luce entra con difficoltà o è soffocata da porte e persiane. Unico contatto con la realtà, con l’esterno, con la vita e con il futuro è rappresentato dalla bicicletta: derisa dal barbiere, condannato ad una vita di solitudine e di punizione, definita “ferrovecchio”, diventerà invece mezzo di rinascita e di movimento verso l’esterno, verso il viaggio della vita. L’uomo della bicicletta rappresenta il personaggio emblematico della scrittura di Marino: naturalmente è il folle della situazione, emarginato dalla società, colui che, però, secondo tradizione antica del teatro e della letteratura, dice la verità, ma soprattutto spinge l’altro personaggio, scontroso, burbero, scuro e affranto, a far emergere il suo racconto e le sue preoccupazioni. L’ex barbiere appare come l’uomo sconfitto dalla società omertosa e omologatrice: per questo motivo riesce ad esternare il suo pensiero e il suo dolore solo ad un uomo considerato folle da tutti. Quest’ultimo, interpretato da uno straordinario Fabrizio Ferracane, presenza incessante, animalesca, profondamente poetica, incalza una sorta di monologo-dialogo, in cui le domande poste restano per lo più senza risposta, sebbene il barbiere, Rino Marino appunto, intervenga sporadicamente, fino all’apice dell’esplosione. La tensione, dunque, e l’attesa sono decorate con ironia e da slanci di humor amaro. Il pazzo del paese, colui che percorre chilometri con la sua bicicletta, ha adottato questo metodo per far sciogliere i pensieri e farli galoppare liberamente. Nonostante alcuni momenti siano tirati a lungo ed estesi eccessivamente — come la scena conclusiva che viene “riempita” dalla filastrocca siciliana e dal sottofondo di “banniata” — il culmine viene raggiunto con la donazione della bicicletta: un passaggio di testimone, sull’uscio di quella bottega polverosa, affinché il barbiere possa riprendere in mano la sua vita, momento estremamente poetico e commovente, simbolo di una solitudine profonda che accompagna tutti gli uomini. Per questo motivo potremmo parlare di uno stesso personaggio e di una sua evoluzione, le cui passioni sono riportate in scena attraverso due corpi e due attitudini completamente diverse. Questo dimostra il connubio perfetto tra un travolgente e commovente Ferracane ed un rigido Marino, silenzioso, arido anche nella pronuncia delle battute: in assenza di questo necessario contrasto, interpretativo e scenico, nessuno dei due personaggi colpirebbe il pubblico che forse si annoierebbe. Questo dimostra che l’equilibrio è raggiunto.

Foto di Charley Fazio

FERROVECCHIO
NAPOLI TEATRO PICCOLO BELLINI
11-16 FEBBRAIO 2020
di Rino Marino
con Fabrizio Ferracane e Rino Marino
scene e costumi Rino Marino
disegno luci Luigi Biondi
regia Rino Marino
uno spettacolo della Compagnia Marino-Ferracane
produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini