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A Mario non sembrava vero di prendersi qualche giorno di piena libertà e andarsene nella città europea da lui preferita ed amata: Parigi! E proprio nei giorni del suo compleanno, a novembre, invitato da un amico docente di Storia del Teatro a Paris 8, di origini italiane, Claude. Meraviglioso, pensava, era per lui staccare la spina dopo giorni e giorni di vita al chiuso, in teatri antichi e claustrofobici, con stoffe di sipari polverose, con attori noiosi, a volte pretenziosi e spesso saccenti. Aria, aria, plein air! E non gli importava che fosse autunno pieno, col rischio di pioggia, freddo e vento dal Nord, si sarebbe portato il vestiario adatto. E poi, cosa non meno importante per Mario, era dimostrare ai suoi colleghi ed amici che non era affatto vero che lui fosse uno stakanovista, uno indifferente alla vita “là fuori”, quella vera, quella della strada, o delle case, quasi albergasse in lui una vera e propria misantropia!
Giusto  nel giorno d’arrivo nella capitale francese  andava in scena al Théậtre de la Ville, nell’ambito del Festival d’Automne, l’ultima  creazione di Bob Wilson, The Old Woman,  con interpreti Willem Dafoe e Mikhail Baryshnikov:  Claude gli aveva procurato un biglietto omaggio, sapendo della passione di Mario per il lavoro di Wilson. Sarebbe stata, pensavano entrambi, una serata di grande entusiasmo, essendo la Francia un po’ una seconda patria artistica per il grande Wilson che nei parigini trovava da sempre degli spettatori innamorati. Peccato che non avrebbe potuto assistere, nel febbraio successivo, a Peter Pan, nuova collaborazione tra il regista texano e il Berliner Ensemble; e, al Théâtre du Châtelet,  alla storica opera Einstein on the Beach, su musiche di Philip Glass.
Comunque, Mario poteva visitare al Louvre Living Rooms, mostra-installazione in tre parti, con cui il nome di Wilson si aggiungeva ai tanti artisti e intellettuali (tra gli altri, gli scrittori Umberto Eco e Toni Morrison) invitati negli ultimi anni ad allestire un “museo personale” negli spazi del Louvre.
Dopo lo spettacolo serale, per Mario di grandissimo fascino, per l’amico Claude al contrario, piuttosto noioso, entrambi l’indomani andarono al Louvre. L’installazione wilsoniana consisteva nell’ideazione di un luogo a metà  fra una stanza da letto e una “camera delle meraviglie”. Al centro della sala campeggiava un grande letto dalla biancheria candida, accanto a cui erano posati sul pavimento un paio di stivali  argentati texani, come se fossero stati appena sfilati dai piedi. Le pareti della Sala erano  completamente ricoperte di oggetti appartenenti alla eterogenea collezione personalissima di Wilson, iniziata negli anni della fanciullezza: tra le altre cose, un paio di scarpe calzate per anni da Marlene Dietrich; un guanto di bambino ritrovato sulla 7a Avenue a New York;, il primo quadro acquistato; e poi fotografie e disegni, ceramiche e maschere africane, oggetti etnici di varia provenienza, pezzi di design modernista. Mario, durante la visita, man mano percepiva in Claude una sorta di disagio, forse di disinteresse. L’importanza di tutti quegli oggetti-reperti della memoria, tutti  pezzi esemplari di ciò che aveva nutrito l’ispirazione dell’artista in oltre quarant’anni di attività, oggi custoditi al Watermill Center, a New York, era dimostrata dal fatto concreto che abitualmente il centro è da sempre frequentato da giovani artisti di ogni Paese.
Mario chiede all’improvviso a Claude se per caso fosse del tutto disinteressato:
“Claude, ma per caso hai qualche fastidio? Qualche malessere? Dimmelo, possiamo anche uscire fuori, o prendere qualcosa di caldo, no?”.
“Assolutamente, dai, non preoccuparti, mica pretenderai che ciò che piace a te debba per forza interessare anche me, no?”.
In un’altra sala, vicina a quella dov’è custodita e protetta la Gioconda, su ispirazione dei suoi famosi «video portraits», Wilson si era divertito a ricreare su schermi piatti al plasma alcuni celebri quadri, un paio dei quali conservati esattamente al Louvre. Musa ispiratrice  e complice di questa ideazione, un’inedita Lady Gaga, vestita coi panni di un’eterea Mademoiselle Rivière di Ingrès,  prestando, su idea dello stesso Wilson, il suo volto alla testa del San Giovanni Battista decollato di Andrea Solario, ma anche, in un’altra sala vicina, al Marat assassinato di David.
All’improvviso dalla bocca di Claude uscì un fragoroso “Mah”, che fece voltare verso di lui, e verso Mario, qualche altro visitatore.
Al che Mario sbottò:
“Ma che ti prende? Allora sei semplicemente scocciato, no?”.
“ Mi pare a ragione: ma che cazzo c’entra ‘sta cretina di Lady Gaga con opere di grandi artisti? A me del postmodernismo wilsoniano non me ne importa un fico secco!”.
“Ma a me potrebbe interessare, invece. Lo so che a te del teatro e dell’arte più recenti non te ne frega un piffero, ma allora che ci sei venuto a fare?”.
“Per curiosità, vabbe’, e allora? Mi pareva anche un gesto di cordiale ospitalità! O non sei più abituato ad essere ospitato al di fuori delle quattro mura di un teatro?”.
La domanda gela Mario, che in un istante gli pare di sentire un coro di voci, di colleghi, attori, compagni, amici, ripetergli quella stessa domanda. “O non sei più abituato… ato… ato…”.Mario fa uno sforzo tremendo per non farsi prendere da uno scatto d’ira e litigare di brutto con Claude. Vorrebbe scappare, andarsene, star solo:
“Io ti ringrazio dell’ospitalità, ma non vorrei che me la facessi pesare troppo! Tutto qui!”.
E lo scontro fra i due sembra esaurirsi con tali parole.
Mario ebbe il tempo di pensare più freddamente, e decise, scendendo alla stazione della metro del Louvre, di fingere di perdere le tracce di Claude, e se possibile d’infilarsi in un convoglio diverso da quello dell’amico. E così andò, in più Mario spense il suo smartphone.

Da una Testa del Battista a un’altra Testa; da Francesco del Cairo, con la sua Erodiade che possiede la “capa” tranciata di chi ha rifiutato le sue erotiche attenzioni, ad Andrea Solario, a Bob Wilson, il quale ultimo e per ultimo  dà i tratti di Lady Gaga al volto barbaro ed esangue di San Giovanni. Dal senso del tragico al senso del gioco e del mimetismo di Wilson e Lady Gaga; dall’uso dell’arte, anche la più aristocratica e classica, al ri-uso postmodernista dell’arte! Mario pensava assortamente ai giovani ricercatori e studiosi e studenti di Paris 8, e a Claude, uno dei loro prof., suo amico, scansato in quel modo, dentro il ventre febbrile e massificato della metro parigina. Cosa stava pensando di lui l’amico? Mario lo avrebbe chiamata dopocena, per riappacificarsi. In quel momento gli premeva riflettere su quanto visto nelle sale del gran Museo: poneva in corto circuito il registro tragico di un grande drammaturgo, scrittore e critico d’arte quale Giovanni Testori con le scelte wilsoniane per il Louvre, ricordandosi quanto quest’ultimo aveva affermato: “Le génie, c’est l’enfance retrouvée à volonté”. L’infanzia, già! Stava vedendo molti bambini in quella mattina parigina di novembre andare a scuola, con un freddo che si preannunciava polare! Di varie origini etniche, di vari colori della pelle: ormai la Francia, pensava, è già avanti nell’interculturalismo, ma rifletteva che pure poteva essere una sua impressione: intanto quei bimbi che si recavano a scuola volevano vivere, nel senso che la Vita reclama i suoi diritti, la realtà preme su tutti noi, e credeva che i suoi stessi pensieri non la potessero né bloccare, né davvero interpretare anticipandola, né giudicare. Era convinto di essere, lui stesso, ancora prigioniero dell’illusione che il Pensiero coincida con il Reale.
E la riprova era la non risposta alla chiamata telefonica serale a Claude: o non poteva o non voleva parlargli, la sua intenzione di rappacificarsi veniva uccisa dalla realtà degli eventi umani.
Camminava l’indomani di sera lungo il Boulevard Jourdan e leggeva su grossi tabelloni luminosi le istruzioni e i consigli che venivano dati ai senza tetto per affrontare il freddo, homeless che, come a Roma, e in chissà quali tante altre metropoli del mondo, abitano i marciapiedi: si chiedeva se sapevano, se volevano, leggere quei messaggi, o se s’incazzavano, infischiandosene di quelle “civiche” attenzioni: gli pareva che la tecnologia moderna imperante si volesse quasi sostituire  all’intervento concreto, fisico e affettivo, di chi deve aiutare quei poveretti, compreso lui stesso, naturalmente. E si chiedeva, ancora: ci saranno sempre dei capri espiatori, nella società moderna e postmoderna? Il senso vero dell’umanità lo si prova dentro la pancia, nel ventre, e non nella testa? Già, pensava, la testa, la testa di S. Giovanni, la cui lingua viene trapassata con sfrenato e funereo erotismo dallo spillone che Erodiade tiene nella sua mano. Non le interessa, alla regal femmina, la capa in quanto contenitore di pensieri, ma la carne che inizia a frollarsi di quella lingua per lei ancora per un attimo lasciva.

Pensava, seduto a un  bistrot, nei pressi di Saint Germain de Pres, che il Louvre è una mastodontica macchina da soldi! Il trionfo di come fare business con la cultura! La grandeur tipicamente francese che si presenta al mondo. Ci sono: cinesi a frotte, ormai ricchi, ordinati, silenziosi, si vede che rispettano il luogo come avesse una sacralità a cui inchinarsi. Ci sono italiani, spagnoli, e poi sudamericani, e poi ancora molti russi, e sempre i giapponesi… e gli statunitensi… e… e… e… una Babele, insomma; perfettamente organizzata: nel piano nuovo inferiore ci sono i servizi, gli accessi alla metro, i negozi di souvenir, ma anche grandi restaurant, e botteghe varie, dove si può anche spendere bene… è il piano inferiore che l’aveva colpito, non essendo stato ancora approntato la volta precedente in cui era andato a Parigi. Pensava che la società dei servizi deve anche pianificare, ordinare, “mettere a posto”, il  “ventre” delle sue città: non più i misteri di Parigi, come quelli di Napoli, o di Londra, ecc. ecc. E che “economia” significa etimologicamente “ordine della casa”. Gli pareva che le grandissime, molteplici opere d’arte, i capolavori, che riposano museificati lì sopra, fossero divenuti un pretesto, un’occasione per… un modo di… Poi si pensava che era un quasi vecchio rincitrullito e nostalgico del “mondo di ieri”! Sapeva, certo, che un urbanista, un architetto, un ingegnere e tanti politici direbbero che oggi si deve fare così e cosà… che il neocapitalismo avanzato ha vinto e che si deve cogliere quel poco di buono e di umano ci concede! Allora gli veniva da immaginare che un Wilson con la sua arte, magari vive una magnifica e dorata “regressione”, in una dimensione puramente “estetica”; e invece che Testori, un Genet, e oggi, mettiamo, un Fabre con il loro teatro e con i loro amati artisti, l’abbiano vista lunga, preconizzando, di fatto, la catastrofe planetaria; chi ha ragione? Chi ci può offrire delle chiavi davvero utili a schiuderci nuovi mondi, nuove salvezze? Gli veniva in mente quanto gli disse una volta uno dei suoi grandi maestri, Raimon Panikkar: “Nel mondo futuro ci potranno essere coloro che imbracciano un mitra da terroristi, coloro che sapranno essere dei mistici, ma non nel senso tradizionale, piuttosto nel senso di chi sa vivere la Vita nella pienezza e nella profondità; tutti gli altri saranno solo degli integrati alienati e, o, sfruttati!”.
Rivedeva il ritratto di Mademoiselle Rivière, il ritratto di una persona pienamente integrata nel suo contesto sociale, ma forse felice… forse realizzata… Poi rivedeva Marat in procinto di pagare la sua rivoluzione con la vita… E ancora rivedeva la testa del rivoluzionario mistico Giovanni il Battista, spiccata per un atto di potere invincibile, ma, pensava, felice di aver compiuto pienamente la sua missione.
Tutte opere offerte dalla teorizzazione dello spreco nelle città postindustriali? O, al contrario, l’accettazione programmata dello spreco finanziario per concedersi il “lusso” della cultura, come servizio per la comunità? Pensava che in Italia le finanze per l’arte, il teatro e la cultura, sono sprecate innanzi tutto da chi le gestisce e magari se le frega pure. Amici francesi gli dicevano invece che lì ancora si spende molto, ma sacrificando tutte quelle espressioni che possono infastidire chi gestisce il potere amministrativo e politico. Ripensava allora ai mille spettatori parigini che riempiono la sala per assistere allo spettacolo creato da Wilson e dai suoi attori: 1000 spettatori a replica, gli venne detto! Si chiedeva: ma quei mille parigini che vogliono? Cosa si aspettano di vedere sulla scena?...

Se ne andava da Parigi, senza più nemmeno aver salutato Claude, con questo interrogativo: ma sarà solo il giudizio estetico a salvare, oggi, e ancor di più domani, il teatro, l’arte, e la vita stessa?
Mario, stretto nel suo giaccone invernale, se ne stava rincantucciato nel suo sedile di fianco all’oblò: e si vedeva sotto il palcoscenico a dir la sua agli attori e ai tecnici, sentendosi come protetto e coccolato…