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La notizia è giunta improvvisa, anche se forse non inaspettata o meglio temuta. Stiamo ovviamente parlando della chiusura dei teatri, necessaria  ma in un certo qual modo comunque 'sciagurata' per chi lo ama e soprattutto per chi il teatro lo fa. Una decisione che la politica ad ogni livello ha preso un po' alla volta, quasi nascondendo la mano come se se ne dovesse vergognare, prima imponendo norme di cautela inapplicabili agli spettacoli dal vivo (la mitica distanza di sicurezza), ma che lasciavano spazi al cinema ad esempio o alla frequentazione dei musei, e poi arrivando a chiudere tutto, su tutto il territorio nazionale, zone rosse e zone non rosse, fino al 3 aprile. Che dire? Mettendo assieme anche la chiusura di scuole ed Università, sembra che ad essere messa in quarantena ai tempi del coronavirus sia soprattutto la cultura in tutte le sue articolazioni, forse perché è più facile intervenire su quello che, per successive campagne di disinformazione e cattiva politica, è ritenuto non

necessario, è ritenuto il 'superfluo'.
Certo, anche secondo l'ultimo twett del ministro Franceschini, la televisione rimane accesa e con la televisione la mitica rete, tra streaming e quant'altro, potrebbero e dovrebbero garantire una supplenza che sa però di stentata sopravvivenza.
Soprattutto per il teatro che, e tutti dovremmo esserne più consapevoli, non è solo o tanto lo spettacolo sul palcoscenico che non cambia se visto dalla platea ovvero a distanza tramite l'occhio di una telecamera o il bit di un computer.
Il teatro è soprattutto contatto e presenza, è una comunità che si sposta e si riunisce, che si mette in discussione nel qui e ora della rappresentazione, di fronte e insieme all'attore presente anch'esso in carne e sangue. A distanza, nella solitudine davanti allo schermo di uno spettatore tendenzialmente passivizzato, è un'altra cosa, interessante e profonda magari, ma altra.
Ma oltre a questo, la chiusura dei teatri, dai circuiti istituzionali a quelli alternativi, priva questo organismo delicato dell'ossigeno necessario anche alla sua stessa sopravvivenza e se questa mancanza dovesse protrarsi eccessivamente rischieremo di veder morire esperienze interessanti e delicate, di interrompere crescita e ricerca e di trovarci, dopo, un mondo, e non parliamo solo di quello del teatro, tristemente più povero.
Il teatro e la cultura, infatti, sono, detto senza alcuna retorica, l'alimento necessario dello spirito e della mente, e quindi della libertà interiore e collettiva, e questa possibile carestia riteniamo vada evitata a tutti i costi.
Mi auguro dunque che anche la politica ed il governo ne prendano piena consapevolezza e mettano in campo nuove risorse perché l'organismo teatro non abbia a risentirne drammaticamente, magari integrando finalmente il carente fondo per lo spettacolo a supplenza dei mancati introiti, così che da parte nostra potremmo meglio sopportare questa contingente, e speriamo breve, asfissia.
È questo della nostra rivista un messaggio forte che contiamo venga raccolto e condiviso da quante più realtà possibili, tra critica, accademia, operatori e semplici spettatori.