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I teatri sono chiusi, ma il Teatro non è chiuso, e continua a coltivare idee, a sviluppare, come può e con quello che ha a disposizione, idee e progetti, ad alimentare e a mettere a nostra disposizione la sua idea del mondo. E una rivista di Teatro, la nostra rivista di teatro? Continua anch'essa ovviamente, e se ha sospeso recensioni e notizie, essendo interrotte le stagioni, continua a dare voce a quel mondo, agli attori, ai registi, ai drammaturghi, affinché non si perda il contatto tra quelli e la società. Proprio per continuare ad addentrarci nel mare del teatro che è e che sarà, nella sua dimensione creativa e simbolica, noi, come rivista, abbiamo dunque pensato di avvicinare e di far sentire le voci di compagnie, direttori artistici, attori e drammaturghi. Nel mentre, dunque, diamo costante notizia delle iniziative in corso e continuiamo ad offrire la nostra ospitalità alla creatività degli scrittori di teatro, nella nostra ventennale, ricca di 1887 scritture, biblioteca on-line di testi drammaturgici, in

continuo incremento, abbiamo dunque cominciato questa nuova esperienza incontrando nell'ordine Amedeo Romeo del Teatro della Tosse di Genova, Micaela Casalboni e Andrea Paolucci del Teatro dell'Argine di Bologna e il drammaturgo Edoardo Erba. Ora è la volta di Sergio Maifredi, genovese dalla trentennale esperienza, regista, produttore e drammaturgo, Presidente e Direttore Artistico del Teatro Pubblico Ligure da lui fondato nel 2007.

MDP Sergio, tu ti definisci un nomade, traendo quasi da una condizione esistenziale simbolica e in un certo senso anche agita (hai diretto molti teatri in Italia e all'estero) la cifra estetica del tuo fare teatro. Vuoi darcene una rappresentazione?

SM Questa definizione mi è appartenuta fino a qualche anno fa in maniera molto concreta, essendo non tanto metaforica quanto reale, poiché per un lungo periodo mi è capitato di avere la mia società di produzione, il Teatro Pubblico Ligure, qui a Genova e insieme di dirigere un teatro in Puglia, il Teatro Curci di Barletta, in una città molto bella: il Teatro della Città, come spesso accade in Italia, quando c'è una sovrapposizione tra le due entità, cosicché qualunque cosa accade o è accaduta in quello spazio teatrale accade ed è accaduta nella città. Contemporaneamente dirigevo un teatro a Roma, il Teatro Vittoria, il teatro che fu di Attilio Corsini, per intenderci, e ora è di Viviana Toniolo, e lì vivevo una esperienza molto diversa, perché quello non era il Teatro della Città ma bensì un teatro nella città. Quindi erano tre esperienze che vivevo per così dire in modo contemporaneo, costringendomi nella stessa settimana a passare due giorni a Genova, due in Puglia e due a Roma. Vivendo tra l'altro modalità e pratiche tra loro diverse. In Puglia infatti dovevo pensare la mia attività in rapporto stretto con la comunità, mentre a Roma questo non accadeva. Tu, a Roma, non dovevi cioè costruire la tua offerta artistica a 360 gradi per la città, ma dovevi ritagliarti uno spazio, una specificità in un contesto più ampio, che ti facesse guadagnare un tuo pubblico, non tanto di nicchia, perché comunque il Teatro Vittoria conta 500 posti, ma comunque in qualche modo connotato. Dunque in quel periodo il mio nomadismo è un nomadismo reale, con cui andavo a brucare l'erba dove l'erba era. Nel frattempo poi si è aggiunta la mia esperienza in Polonia, come regista residente al Teatro Nowy di Poznan, sviluppatasi in un arco temporale che va del 2005 al 2014, e così per alcuni anni, dal 2008 al 2012 appunto, le situazioni contemporanee che vivevo erano addirittura quattro, ma mi divertivano molto, e mi potevo riconoscere in quell'immagine che tu hai ricordato. Dopo le cose sono un po' cambiate, anche se per un paio di anni mi sono occupato del Teatro Placido Mandanici di Barcellona Pozzo di Gotto, una sala da mille posti. Ho cominciato, cioè, a lavorare ad una idea di teatro di comunità, più stanziale dunque e se vuoi diverso rispetto alle precedenti esperienze. Un teatro di comunità che comunque prevede contatti e rapporti anche lontani, dalla Sicilia all'Albania, ma le cui creazioni non hanno più le caratteristiche del nomadismo, del non radicamento. Al contrario questo è un teatro che ha la sua sostanza nella capacità di valorizzare le radici della sua comunità, cioè di rammendarne i fili, di dare alla comunità quegli elementi di conoscenza che consentano di farla sentire tale. Questo è quello che cerco oggi di costruire, ma insieme continuo a guardare ancora al mio percorso nomade. Nel senso metaforico o estetico per il quale, contrariamente a chi emigra e dunque si stacca, il nomade spostandosi si porta dietro tutta la sua tribù, la sua tenda, la carovana delle persone che sono con lui, e questo è quello che ho sempre cercato di fare, fino ad ora. Che fossi in Sicilia, in Puglia o altrove infatti ho sempre cercato di avere con me uno staff di persone che, per quanto possibile, fosse sempre quello, e che potesse portare avanti con continuità la poetica che io volevo portare avanti. Diverso il discorso per chi, anche metaforicamente o artisticamente, emigra per scelta e per necessità, per cui ogni volta si ha uno sradicamento. Ma non è quello che ho fatto io, poiché a me piaceva, sì, muovermi e incontrare, ma muovermi portandomi dietro un modo di fare teatro che era 'mio', e che era mio proprio grazie ai collaboratori che potevo portare con me e che sapevano, con me, sviluppare quel tipo di teatro.

MDP Ora questo tuo fare, che non è solo un concetto artistico ma anche una pratica concreta, impatta con una situazione anomala, in cui viene predicata, in nome dell'emergenza sanitaria, l'immobilità, la chiusura. Come vivi, dal punto di vista intellettuale, questa parentesi?

SM E' questo un impegno per tutti quanti noi ed è una prova abbastanza complessa. Innanzitutto io penso che i teatri non siano gli edifici, e sono gli edifici che in questo momento sono chiusi. Il Teatro invece è fatto da una serie di individui, che fanno la componente artistica e la componente organizzativa del teatro, ma individui che sono soprattutto il pubblico. Noi allora abbiamo subito pensato a loro, al pubblico, anche perché proprio in quel momento, quando è scattata la chiusura, avevamo in corso un convegno che si intitolava appunto “Il mio teatro è una città”, che è quello che penso ora e che è la sintesi di ciò che mi sento di fare ora con il Teatro, cioè mettere in scena una città, mettere in scena una comunità. Proprio in quel momento è scattata questa emergenza e allora abbiamo agito per così dire d'istinto, come spesso accade nell'emergenza. Poi pensi a quello che hai fatto, e che eventualmente hai fatto di buono in quella contingenza, per cercare di applicarlo e praticarlo per un periodo più lungo, come questo. Abbiamo scelto così di cercare una nuova strada tecnologica per andare comunque in scena. Nella circostanza infatti le sale erano già chiuse, e non c'era la possibilità di portarvi la gente, ma non c'erano ancora rigide restrizioni al movimento della persone, per cui i convegnisti sono arrivati e noi ci siamo attrezzati subito per poter fare due giorni di vera diretta utilizzando i social, andando in scena come se in quel momento avessimo davanti il pubblico. Noi ci siamo sentiti davanti al pubblico, perché la diretta web ha fornito quel collante di cui avevamo bisogno. È maturata lì la mia scelta di continuare ad andare in scena, continuando a tenere il rapporto con il pubblico. Ma, appunto, come? Per prima cosa non volevo fare teatro in gabbia, teatro in cattività, anche se è encomiabile lo sforzo di chi ha ripreso qualcosa di già fatto, del materiale di archivio. Anzi pure noi lo abbiamo fatto, mettendo a disposizione, soprattutto per le scuole, i nostri archivi. Ma è comunque un'altra cosa, rispetto al riproporre materiale già lavorato sul web, il cercare di portare il know-how di una comunità che fa teatro comunque in scena. Noi abbiamo così deciso di produrre qualcosa di nuovo, avviando cento giornate, ispirate come paradigma al Boccaccio, per due ragioni, perché il Decameron fu concepito in un tempo di peste e, soprattutto, con l'intento di passare dall'orrido al sublime, attraverso un percorso di redenzione e di purificazione, tanto che alla fine del Decameron non c'è più la peste. Era il modello più appropriato, coerente e insieme ci forniva una sorta di format: cento racconti per dieci giornate da noi riproposte però su cento giorni, cento racconti per sconfiggere la peste come allora. E quindi siamo partiti e man mano ci siamo evoluti, perfezionando il nostro progetto. Se per le prime quarantanove giornate abbiamo chiesto a grandi artisti, del teatro, della scrittura e della musica, il loro contributo con il dono di un racconto, da leggere e condividere con gli atri, la cinquantesima, il 27 aprile prossimo, sarà invece aperta al nostro pubblico cui chiederemo di farsi attore prendendo in mano un libro ciascuno, per fare una grande carrellata di cento racconti in un solo giorno. Queste saranno le prime cinquanta giornate, dalla cinquantunesima andranno in scena invece dei racconti di ricostruzione. Abbiamo cioè chiesto ad architetti, giuristi, psicologi, di raccontarci, come sorta di exempla, un momento di ricostruzione. Per dire, tra le altre, la ricostruzione della Repubblica Italiana e la sua costituzione del 1948, ove la Legge in un certo senso capiva e recepiva gli intenti di chi usciva da un periodo di guerra e distruzione, mettendo insieme parole che dessero il segno della ricostruzione di uno stato, non in modo utopistico, anche se naturalmente con componenti da stato ideale, ma fortemente aderente alla realtà. Non andiamo cioè a riprendere la “Città del Sole” di Campanella, ma qualcosa di aderente alla nostra storia e al nostro esistere attuale. Oppure mandiamo il racconto del piano che un architetto elabora per ricostruire un quartiere, non ipotetico ma reale, un quartiere pensato per migliorare la vita dei suoi abitanti. Altro caso il Barocco in Sicilia dopo il terremoto del 600, in cui narrare una distruzione e poi una ricostruzione che però va oltre quello che già esisteva e che così diventa l'opportunità per creare anche qualcosa che non c'era. Il Barocco appunto che in Sicilia non c'era e che arriva, e con quale bellezza, proprio grazie, paradossalmente, ad un terremoto. Vogliamo dunque portare in scena, cioè dentro la città, storie di questo tipo, come negli esempi e anche con il contributo, in quel contesto, di vicende personali. Quindi per tornare alla domanda, noi abbiamo pensato di fare qualcosa di nuovo che fosse coerente con le circostanze, facendo qualcosa in cui il palcoscenico avesse le dimensioni dello schermo di un telefonino o di un iPad. Allo stesso modo di quando lavoravo con gli artisti polacchi che disegnavano magnifici manifesti per gli spettacoli, a loro io dicevo che la regia sta nello spazio di una locandina, in un metro per settanta. In quello spazio il disegnatore fa la sua regia, e lo stesso accade nel web. Tu sai infatti che chi ti vede così, non ti vede e percepisce come a teatro o come al cinema o come in televisione, ma in un modo specifico cui devi cercare di arrivare. Per fare in modo, così, che tutto ciò che per me è teatro continui ad accadere, accada attraverso il mezzo che in quel momento ho a disposizione. Non devo diventare un esperto di telefonini o altro, ma faccio teatro, continuo a fare teatro individuando anche in questo caso il modo attraverso il quale far passare una emozione. Quindi stiamo cercando di lavorare su questa strada per far sì che quello che abbiamo diventi in qualche modo palcoscenico. Faccio spesso in proposito l'esempio di Kantor che ha voluto fare “La classe Morta” nella Cricoteka, in una sorta di scantinato, che io ho visto, e ci è riuscito. Se lui avesse avuto la necessità di grandi spazi, dei grandi palcoscenici, non sarebbe riuscito a fare quello che ha fatto. Usufruendo di questo spazio strano che è la rete, noi dobbiamo comunque essere capaci di mettere in scena la nostra capacità, la nostra creatività, riuscendo a far accadere anche lì quel qualcosa di grande, cioè collegare qualcuno che racconta una storia con qualcuno che quella storia ascolta, e insieme trasmettere l'emozione che quel qualcosa sta accadendo ora e sta accadendo per loro, e per altri che in quello stesso momento la stanno vivendo con loro. Questo è quello che viviamo e diamo quando abbiamo il miglior teatro e questo è quello che dobbiamo dare e ricevere anche quando siamo collegati in rete. Che so, Luca Barbareschi fa delle dirette tutte le domeniche alle 17, propone un’idea, un pensiero e io lo ascolto. Allora il sapere che quelle parole sono rivolte a me, il sentire che contemporaneamente altri sono con me ad ascoltare, in maniera quasi clandestina, costituisce il filo di una emozione. Su questo filo dobbiamo lavorare per far scattare qualcosa di sincero. Questo adesso abbiamo a disposizione e può essere meglio o peggio di altri momenti, ma questo è.

MDP Concordo con te che sia stata una scelta coerente e vincente sia nelle forme che nei contenuti. D'altra parte molti, ed io con loro, pensano che Web, streaming e altro non possono restituirci l'essenza del teatro, che è contatto e scambio in qualche modo anche fisico. Anche tu pensi che queste soluzioni provvisorie servano solo a mantenere accesa l'attesa che tutti viviamo della futura ripresa, oppure  che c'è qualcosa di più?

SM Io partirei però, da un fatto altro, dal pensiero opposto, cioè: è teatro quello che avviene tutte le sere nel 90% dei luoghi che definiamo teatro? Cioè quei luoghi fatti di platee, di poltrone davanti al palcoscenico. È una domanda che mi sono posto anche a partire dall'esperienza personale. Quante volte in quei luoghi ho provato l'emozione che chiamo teatro? Io in proposito ricordo uno spettacolo, avevo sedici anni, nel quale arrivavi in un luogo, dovevi bussare a un portone, ti aprivano e ti facevano scendere in un posto oscuro nel quale recitavano i Fiori del Male di Baudelaire. Io ero molto preoccupato durante quel percorso, nella semi-oscurità di un luogo che non conoscevo, ascoltando per poi uscire con la sola guida delle candele, vedendo e non vedendo: quell'evento mi ha dato una grande emozione. Mi ha dato la prima percezione delle potenzialità del teatro, un luogo anche di possibile pericolo, dove sei a contatto con persone sconosciute con cui condividi una esperienza nuova e ti metti in gioco. Un’emozione che certamente si è ripresentata anche con spettacoli più tradizionali, da palcoscenico. Però, secondo me, lì (nella sala tradizionale) non è detto che ci sia ancora quell'emozione che ci immaginiamo forse poteva dare il teatro greco, un emozione che invece proviamo magari in tanti altri luoghi, come ad esempio lo stadio di un grande concerto rock, ove abbiamo talora la sensazione si rinnovi quella stessa emozione che poteva accadere in contesti teatrali come il teatro greco o quello scespiriano. Così che quell'esigenza collettiva potrebbe essersi trasferita dall'anfiteatro greco ad altri luoghi, che non necessariamente chiamiamo teatro. Quello che facciamo ora è mettere a disposizione tutto quello che sappiamo fare affinché quell'emozione si ripresenti con i mezzi che ora possiamo usare. Dopo di che non mi pongo il problema del dopo, quando continueremo a fare quello che sappiamo fare utilizzando gli spazi di cui disporremo, e che potranno essere questi che stiamo scoprendo, riscoprendo ovvero sperimentando e implementando, o anche altri, vecchi o nuovi che siano. Ma se questo modo di oggi mi dà l'opportunità di fare qualcosa che altrimenti non potrei fare, allora io lo voglio provare. Così Ronconi quando ha fatto l'Orlando in Piazza del Duomo l'ha fatto in un modo, quando l'ha fatto in televisione l'ha fatto in un altro, comprendendo di avere a che fare con un mezzo diverso ma insieme utilizzando al massimo quel mezzo diverso. E in entrambi i casi, a mio parere, era teatro e buon teatro, fatto da chi dimostrava di conoscerlo e padroneggiarlo molto bene anche nel nuovo mezzo. Se Ricci e Forte scrivono qualcosa per la televisione, io penso che loro continuano comunque a fare teatro, utilizzando le loro grandi capacità di scrittura ma applicandole ad un mezzo diverso. Non mi pongo il problema. Noi anche adesso stiamo facendo teatro, solo in un luogo che anziché chiamarsi sala Duse, si chiama Web. Io anzi mi pongo l'urgenza di continuare a fare teatro con i mezzi che ho, considerando che questa 'prigionia', questa 'immobilità' avrà tempi a quanto pare ancora lunghi. Come un giornalista che, se non ci fosse la carta stampata, deve trovare un altro modo per dare la sua notizia, poiché fa pur sempre il giornalista, anche dovendo capire come utilizzare un mezzo diverso dal consueto. Poi alla fine scopriremo che è bello tornare ai modi e mezzi consueti, ma, come per la carta stampata continuando ad esistere il web, allora dovremmo solo cercare di capire le diversità e le eventuali specializzazione dell'uno e dell'altro mezzo. Però non posso non sperimentare le vie nuove, come ha fatto ad esempio la musica utilizzando nuove e diverse tecnologie, poi ognuno può utilizzare la tecnica che preferisce. Io sono convinto che stiamo facendo teatro come si può fare, appunto, ai tempi della peste, in cui è giusto che si vada in scena, come Kantor, con i mezzi e nei luoghi che hai a disposizione, trovando le regole di questo teatro, poi magari tornando fuori quando si potrà, ma sapendo che esiste e che hai fatto già un pezzo di strada.

MDP Un altra domanda, se pensi che possa avere una risposta. Come sarà il teatro alla ripresa? Che problemi avrà e come eventualmente dovrà cambiare?

SM Quello che mi pare evidente sin da ora è che più un teatro è pubblico più sta guadagnando da questa crisi, più un teatro è privato e più è in difficoltà rispetto a questa stessa crisi. Infatti il divario tra teatro sovvenzionato attraverso il FUS e quello non sovvenzionato si va incrementando. Il teatro sovvenzionato si trova oggi nelle condizioni di potere ricevere fondi del FUS aumentati e insieme di non avere la necessità di fare produzione. Quindi non affronta le perdite, che dalle produzioni spesso conseguono, e ha solo introiti. Le strutture sono tutelate, quelli che ci rimettono, anche nei riguardi dei Teatri Nazionali, sono invece gli attori che perdono le scritture. Questo evidenzia anomalie non comprensibili, in quanto è assurdo, che un teatro nazionale non abbia una sua compagnia di attori stabili (ndr ragione per cui in fondo erano nati i Teatri appunto Stabili). Invece in Italia è così, con la conseguenza che i primi ad essere abbandonati nella crisi sono proprio gli attori. Stabili dunque sono solo gli uffici. In Polonia invece, dove lavoro io, a Poznan, pur essendo una città di soli seicentomila abitanti il teatro ha una compagnia di quaranta attori fissi. Così i teatri pubblici paradossalmente guadagnano dall'essere stati chiusi. I teatri privati invece sono ovviamente più in difficoltà, perché vivono solo in quanto riescono a vendere ciò che producono. In sostanza ammesso che entro ottobre si riparta, e senza le ridicole restrizioni di cui si parla, la difficoltà del settore si protrarrà a tutto il 2021 compreso, prima che quelli che sono sopravvissuti riescano a rimarginare le ferite. Il rischio è che non si possa ripartire neanche ad Ottobre. Io credo pertanto che questa crisi metta in evidenza degli aspetti e delle debolezze che già esistevano. Hanno ad esempio chiuso le chiese ed i teatri, e forse la nostra colpa è stata un po' quella di non essere riusciti a far percepire i teatri come luoghi importanti, similmente, se non al pari, dei servizi essenziali. Perché si ritiene non prioritaria la parte spirituale e culturale della socialità. Ma ora è tardi, non si può farlo adesso se non si è stati capaci nel tempo di pretendere, giustamente, che invece lo fosse. Così i supermercati sono pieni, all'insegna dell'esigenza del mangiare, ma non siamo riusciti a rendere altrettanto indispensabile l'esigenza dell'incontro a teatro. Poi puoi anche farlo, di chiudere i teatri a fronte di una emergenza, ma avendone presente la fame e mantenendola viva. Noi non siamo forse stati capaci di fare un teatro che attivasse e alimentasse questa fame, questa necessità, per cui adesso sembra normale che i teatri siano chiusi e la gente non sembra stia aspettando la loro riapertura, e questo secondo me è frutto anche di una nostra mancanza, di una mancanza di noi uomini di teatro.

MDP Sul punto non mi trovo del tutto d'accordo, in quanto penso che in questi ultimi anni sia stata inoculata, in una specie di mitridatizzazione di massa, una sottile bugia nelle coscienze. Cioè che la cultura in generale, nella scala dei bisogni umani, si colloca negli ultimi posti.  E con la cultura il teatro è andato in fondo a questa scala di valori. È nelle priorità solo di alcuni ma non della Società nel suo insieme. Poi ci sarà anche una qualche responsabilità, o una assuefazione, in chi fa teatro o opera a fianco, come il critico o lo studioso come me, non so, so che quando le persone hanno l'occasione di assistere a del buon teatro, sentono che il teatro può cambiarle, percepiscono che è uno dei meccanismi più potenti di conoscenza, consapevolezza ed elaborazione, proprio quello che si è cercato negli ultimi anni di rimuovere dalla coscienza collettiva. Per cui penso che anche stavolta il Teatro non morirà, anche se della sua morte si parla sempre e da sempre. Ora un'ultima domanda, anche per chiudere con una visione di speranza, quali progetti stavi e stai sviluppando o magari riattivando e ricreando?

SM Adesso sto continuando a lavorare al progetto de “L'atlante del Gran Khan”, che è nato quattro anni fa e che ha già fatto varie tappe e ne deve fare a breve altre tre. E che sta per debuttare anche in Liguria, precisamente a Sori e Camogli. Si tratta di una sorta di traversata che racconta le biografie delle città, le biografie di ogni singola città. Noi restiamo cinque mesi in ognuna delle città scelte e selezioniamo, in ciascuna, ventotto storie che poi vengono scritte per la scena e con esse si va a comporre la carta di identità invisibile di quella città, rappresentando così l'idea che le città non siano gli edifici ma le storie di chi quella città abita. L'idea è quella di andare in scena non appena si potrà, ma nel frattempo mi piacerebbe comporre una sorta di atlante trasversale che riunisca tutte le città che in questi anni hanno fatto parte del progetto, richiamando tutti i loro cittadini, stavolta non con le loro storie ma con le risposte a quattro domande inerenti questo tempo che stiamo attraversando, in maniera da  implementare il grande affresco di volti e comporre un grande atlante on-line. È una sorta di scarto rispetto alla rotta che ci condurrà a portare in scena queste città, uno scarto che riunisca in questo atlante i luoghi in cui è arrivata questa nostra grande carovana, la grande carovana del Gran Khan appunto. Dunque, a fianco dei “Racconti in tempo di peste”, stiamo proseguendo questo grande progetto, che sarà on line anch'esso finché non sarà possibile atterrare. Contemporaneamente ci stiamo attivando per la nostra stagione estiva, semmai si dovesse poter riaprire, con alcuni lavori nuovi, come “L'isola del Tesoro” che sto preparando con Giuseppe Cederna. Tra un po' poi comincerò le prove di un testo di Ionesco, “Il rinoceronte”, inizialmente lavorando anche su questo copione, con gli attori, on line. Cerchiamo di tenere la rotta e dosare viveri ed acqua per resistere il più possibile fino ad intercettare una nave o veder terra.

MDP Io spero che nel frattempo, in attesa di superare l'emergenza, arrivino un po' degli aiuti promessi che consentano la traversata, soprattutto agli attori e agli artisti, per non perdere compagni di viaggio. Sarebbe altrimenti molto triste.