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Quando inizio a scrivere una storia non so mai esattamente dove andrà a finire. In realtà credo fortemente che la storia sia già scritta dentro di me, solo che io non la conosco ancora. Quindi, quando scrivo, probabilmente sto solo scavando dentro.
Alcune persone più sagge di me, prima che io nascessi, hanno detto che dentro di noi c’è tutto ovvero che, nella nostra anima, convivono: il salvatore e l’omicida, il filantropo e l’egoista, il saggio e l’immaturo, il vecchio e il bambino, l’uomo e la donna, eccetera. Insomma, qualcuno deve avermi fregato facendomi credere che dentro di noi ci sono delle possibilità infinite.
Prima di essere un Regista sono un Drammaturgo e un Attore: e sinceramente non so quale di queste identità venga prima. Per me è necessario partire dal corpo, dallo stomaco dell’Essere che gioca in scena, perché è l’unico possibile custode di verità. Sono profondamente convinto che le parole debbano passare il test dell’azione scenica, la quale deve riconoscere quelle parole e trovare la strada per farle sue e renderle azione.
Ogni parola che viene incisa sul foglio da un’immancabile Bic nera, proviene dal mio stomaco e dalla mia spina dorsale che sta “in azione”, che immagina vividamente quello che scrive. Poi la parola viene passata – come un testimone – all’Attore che riproduce nuovamente il test. Se anche lo stomaco dell’Attore digerisce quella parola, allora posso iniziare a pensare che potrebbe essere la parola giusta da usare.
Molto spesso sono costretto a non affezionarmi alle parole che scrivo: perché sono solito cambiarle fino a pochi giorni (a volte minuti) prima che io vada in scena, o che mandi in scena i miei attori (accettando quindi anche l’odio che una decisione simile comporta in loro). Tutto questo però è possibile perché i miei attori sanno che, per me, a contare è il senso invece che la forma, il contenuto invece che il contenitore.
Non voglio dire che le parole non contano ma, nel Drammaturgo che scrive e nell’Essere che gioca, occorre aver chiari i seguenti aspetti: chi parla e cosa vuole davvero questo “chi” quando si mette a parlare; qual è il mondo in cui si trova mentre sta parlando; quali leggi governano tale mondo. Avendo chiaro ciò, a quel punto le parole dovrebbero essere quelle giuste. E se non lo sono, poco ci manca.
Le parole, in fondo, a mio avviso sono solo un vestito che ci mettiamo addosso. Niente di più. Sono l’abito che decidiamo di indossare. Ma quello che conta è ciò che sta dietro alla parola, che le dà profondità e respiro, che la fa poi arrivare in un determinato modo alle orecchie, al cuore e allo stomaco del pubblico: quello che alcuni definiscono “il senso” o “l’azione” oppure “il sottotesto”, altri ancora “la necessità”. Tuttavia, al di là di ogni declinazione o definizione che si può dare, la “parola adatta” conta averla dentro nel momento in cui si scrive.
E quando io scrivo, lo faccio perché voglio che il pubblico provi le emozioni che provo anch’io nell’istante in cui immagino qualcosa. È come se fosse una voglia egoista e al contempo ‘filantropica’. Non so dove sia il limite tra un bisogno egotico di far sentire la propria voce e uno invece filantropico di far vedere cosa c’è fuori dalla caverna in cui siamo chiusi.
Io scrivo per il bisogno di comunicare con gli altri e gioco l’attore allo stesso e identico scopo.
Anche questa storia che è A.CH.A.B., con la sua specie di casa sospesa nel mondo delle idee, risponde al bisogno di comunicare con gli altri: provando a restituire, tramite quattro personaggi, un ritratto dell’oggi. Inoltre è forse il tentativo personale di sublimare velleità violente; insieme a quello di raccontare la mia generazione attraverso un trio di personaggi totalmente diversi tra loro come sono Lorenzo, Eva e Maia, cercando nondimeno una riconciliazione con quella precedente rappresentata dalla figura di Luigi. Allo stesso tempo, è pure il tentativo di dare delle possibili soluzioni all’insofferenza quotidiana odierna, di far sorridere le persone e mettere alla prova coloro che, nonostante tutto, riescono a sorridere. Per vedere se, da quel sorriso, riescono a scavare in profondità e scoprire le migliaia di versioni di sé che hanno all’interno.
Aleksandros Memetaj

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Con la regia dello stesso Memetaj, che ne ha composto la drammaturgia, A.CH.A.B - All CHihuahuas Are Bastards è uno spettacolo andato in scena per la prima volta il 17 settembre 2019, al Piccolo Teatro Grassi di Milano, in occasione del festival Tramedautore. Interpretato da Agnese Lorenzini, Ilaria Manocchio, Ciro Masella e Valerio Riondino, è prodotto da Nogu Teatro (di cui al website “nogu.it”) e concorre per la vittoria finale alla rassegna In-Box 2020 (online al link “inboxproject.it”) che valorizza e premia le esperienze più interessanti della scena emergente italiana.

Aleksandros Memetaj. Nato a Valona in Albania, all’età di sei mesi viene portato in Italia a Venezia, dopo una traversata migratoria del mare. Cresce e si forma nella città veneta, dove si dedica a studi classici per distinguersi poi, diciassettenne, nel torneo “Disputa Filosofica” organizzato dall’Università di Padova. Competizione che vince per due volte. Nel 2015, arriva un’altra conquista: quella che lo vede al debutto come drammaturgo e attore del suo monologo ALBANIA CASA MIA, prodotto all’epoca da Argot Produzioni di Roma e attualmente da Nogu Teatro, per la regia di Giampiero Rappa. Un assolo appassionante che riscuote fortune e applausi per oltre 150 recite in Italia, Svizzera e USA, mentre nel 2016 si aggiudica un paio di riconoscimenti: quello del Festival Avanguardie 20 30 di Bologna e il Premio del Pubblico al 15° Festival Teatrale di Resistenza organizzato dal Museo Cervi di Gattatico, in provincia di Reggio Emilia. Nel 2018, quindi, si occupa della scrittura e interpretazione di ELOGIO DELLA FOLLIA - #ILIKEDOPAMINA, diretto da Tiziano Panici ancora per Argot Produzioni e Cie Twain - centro di produzione danza. L’anno dopo è insignito come “Giovane Artista Euromediterraneo” al Mare Magnum Festival e – fatta già menzione di A.CH.A.B. – scrive i testi per la pièce JULIETTE, di cui è uno dei 10 performer diretti e coreografati da Loredana Parrella per Cie Twain. Come attore, infine, si cimenta nel 2020 con un testo altrui qual è L’OSPITE - UNA QUESTIONE PRIVATA di Oscar De Summa, montato e co-interpretato da Ciro Masella per la produzione di Pupi e Fresedde. Mentre, al di là delle ribalte teatrali, lavora come attore di cinema e televisione recitando nei lungometraggi BRUTTI E CATTIVI di Cosimo Gomez del 2017, SULLA MIA PELLE di Alessio Cremonini del 2018, KARIM di Federico Alotto del 2019 e nella serie Tv THE MIRACLE, ideata da Niccolò Ammaniti per l’emittente “Sky Atlantic” che l’ha trasmessa in prima visione nel 2018.