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Antonio Tarantino era considerato uno dei nostri più audaci e originali autori teatrali. Stimatissimo fin dagli esordi dal critico Franco Quadri che l’aveva tolto dall’anonimato e aveva sostenuto il suo impegno pubblicandone i testi con quella splendida creatura editoriale che è stata Ubulibri, uno degli editori di teatro più ricchi e di valore che il nostro recente passato abbia avuto, facendolo concorrere, con un certo entusiasmo, ai Premi Riccione e Ubu, che vinse, e favorendone la conoscenza ai grandi registi italiani (Cherif, anzitutto che ne portò in scena i Quattro atti profani o Tetralogia delle cure e il monumentale Materiali per una tragedia tedesca). I testi successivi hanno soltanto ribadito la sua grandezza, la sua originalità, composta da un misto di irriverenza nei confronti dei valori e delle figure della nostra società e da una lingua grandinosa, ricchissima, al contempo sgrammaticata e quotidiana ma non scevra di una certa visionarietà. Gente alla fine piccola, i protagonisti dei suoi atti e delle

sue tragedie, dediti all’arte della ripicca – Tarantino parlava di “contrappunti di linguaggi”, al menefreghismo universale, spinti verso una acrimonia corrosiva. Eppure non potevi fare a meno di provarne compassione, come nei riguardi della Maria, la protagonista del più volte messo in scena Stabat Mater, o come quei due sciroccati di Arafat e Sharon che vagano nel deserto insultandosi costantemente, ne La pace. E come non innamorarsi di piéces quali La Casa di Ramallah, Passione secondo Giovanni, Stranieri, Lustrini. In Europa era molto stimato e amato, in Francia, ad esempio, o in Portogallo e in Svizzera, dove i suoi testi sono stati rappresentati col dovuto riguardo. Aveva un gusto per il classico mediato prevalentemente dal proprio sguardo divertito, per nulla in soggezione, e non avendo coltivato studi universitari vagava distante da quella sufficienza riverente che spesso i nuovi autori manifestano, quando si rapportano ai grandi testi del passato. Nutriva una certa simpatia per Pasolini e Gramsci, che leggeva, e di cui ogni tanto ti parlava, come se fossero suoi amici d’infanzia.
Alcuni articoli che sono usciti dopo la triste notizia della sua morte per infarto, lo scorso 21 aprile, hanno sottolineato quanto fosse una persona dal carattere ombroso e un isolato. Ma si sbagliano. Antonio Tarantino ha vissuto come ha meglio potuto, suo malgrado l’unico suo difetto non era caratteriale, ma economico: per buona parte della sua vita ha avuto spalle fragili, si è incantucciato nelle sue case popolari, poiché questa è la vita che ti attende quando sei un artista e non ti adatti, non indossi le vesti dell’autore di successo. Tarantino non ha mai lavorato per un teatro, non è mai stato salariato da un quotidiano o da un giornale, e anche i diritti che riceveva – tranne eccezioni – dalle messe in scena erano al limite del risibile. E quando riceveva dei denari se li portava appresso, in una mazzetta di banconote da film che ogni tanto tirava fuori dalle tasca della solita giacca scura. Prima di diventare drammaturgo era stato pittore, un figurativo molto bravo, ma non essendo uno scalatore sociale non era entrato a far parte di quel circo che arricchisce i propri componenti. Eppure era un bravo pittore.
Noi due ci siamo frequentati con assiduità per alcuni anni, poi, come capita nella vita, le strade si sono separate. Spesso, in quegli anni, lo incontravo nei bar del quartiere dove viveva, a Torino, prima che diventasse l’attuale kasbah di figli di papà, quando ancora era solo il quartiere del vecchio centro addossato alla stazione dei treni. Treni che amava guardare partire e arrivare, così mi raccontava. Tarantino amava bere, vino, soprattutto, negli orari più diversi, e gioiva quanto ti poteva ospitare per un piatto in comune, una pasta, un minestrone, in uno dei suoi ristorantini di quartiere. Non propriamente piatti indimenticabili. Ho sentito questo, mi ha scritto quella, ho incontrato quella coppia che dirige il festival xx, i nostri incontri erano resoconti contabili di avvenuti avvistamenti. Conditi ovviamente di immancabili dettagli umoristici.
Anni fa, Antonio fece un viaggio a Roma con un suo amico poeta, poi purtroppo morto e dimenticato, una persona gentilissima anche se ogni tanto bisticciavano come una coppia sposata da una vita. Volevano protestare all’Ambasciata della Repubblica Popolare Cinese contro quella barbara tradizione di uccidere i cani e mangiarli; così si fecero scrivere a pennarello uno o due cartelli – non ricordo esattamente – in ideogrammi, credo da una loro conoscente che aveva un ristorante, e rimasero due giorni in piedi, con in mano questo cartello, davanti all’ambasciata. Totalmente ignorati. Finché decisero che era tempo di tornare a casa. Circolava anche un video che testimoniava la mancata impresa.
Ricordo anche il discorso buffissimo che fece ad un festival di teatro che si svolse ad Armada, vecchia città operaia di fronte alla capitale lusitana: amava raccontare di prendere il solito treno per andare a Roma e poi vagare, come un odierno Obelix, da un ufficio all’altro dei Ministeri, per incontrare persone importanti, notabili, segretari e sottosegretari. Un racconto surreale come surreale è stata un po’ tutta la sua vita. E il teatro, il dramma paradossale, era forse il suo unico destino. Oggi ci restano soltanto i suoi splendidi testi, quanto vorrei che venissero letti a scuola, antologizzati in quelle impossibili Storie della Letteratura Italiana che oramai si adattano soltanto ai Premi Strega e a qualche figura che passa più tempo davanti ad una telecamera che col naso puntato su un figlio o una pagina di word.

Ciao Antonio, ci mancherai

Dal sito: https://studiohomoradix.com