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Dopo oltre tre mesi è dunque arrivato il via libera, con svariati lacci e lacciuoli, per gli spettacoli dal vivo. Quando in anni normali le stagioni si chiudevano ora i teatri hanno la possibilità di ricominciare a lato o insieme, evitando inutili sovrapposizioni, con i tradizionali festival estivi che già si annunciano e riorganizzano. Ma è proprio così? E la domanda non vuole essere retorica proprio perché quelle limitazioni citate, i lacci e lacciuoli insomma, imposti da una pandemia molto ridimensionata ma tuttora attiva, rischiano selezioni improprie e cesure indesiderate. Se le grandi Istituzioni teatrali, i “nazionali” in primis, che già hanno sofferto molto meno, anzi al contrario, direbbe qualcuno, la chiusura grazie ai flussi non interrotti del FUS senza che si richiedesse una qualche produzione, sembrano in grado di ricominciare, i teatri e le compagnie private e più piccole potrebbero in buona parte mancare all'appello. Infatti le prime, grazie in particolare alla disponibilità di teatri più grandi, a volte più di uno, non sempre tra l'altro in tutto esaurito, sono in grado di offrire, anche nel distanziamento, un numero di posti adeguato e sufficiente, le seconde invece non possono, avendo spesso a disposizione

sale molto più piccole e ricavi da bigliettazione certamente prevalenti rispetto alla disponibilità di fondi pubblici.
Così per loro i conti rischiano di non tornare e il conto che potrebbe pagare la drammaturgia nazionale rischia di essere salato, in quanto è in queste ultime realtà che spesso si sviluppa l'innovazione e la ricerca e che si crea il nuovo e il meglio della cultura teatrale italiana.
Potrebbe non bastare la tradizionale vetrina dei festival estivi se in autunno quelle piccole sale  resteranno chiuse per l'impossibilità di assicurare le misure di sicurezza ora imposte, e quelle compagnie giovani e innovative resteranno a spasso.
Urge, io credo, un ripensamento che tenga conto di tutto questo, tenga conto cioè di tutte le realtà del teatro in quanto, proprio nel suo insieme e nella sua diversità, il teatro è per la nostra società necessario come medicina dello spirito e della mente, pharmakon insostituibile, indispensabile non meno del vaccino che dovrebbe chiudere questa collosa pandemia.
Ma non è solo questo, nonostante chi, con ignoranza, continua ad affermare che di cultura non si mangia. È vero il contrario invece, e lo dimostrano proprio i festival estivi, in quanto la cultura muove anche l'economia, creando per un paese dai mille borghi e dalle mille anime indotti ed occasioni di rinascita altrimenti perdute.
D'altra parte, e non a caso, siamo purtroppo il penultimo tra i paesi europei per numero di laureati, un paese in cui in effetti, anche per il contributi di molti uomini e molte donne che”si sono fatti da soli”, si è diffusa l'alea che studiare in fondo non serve, non serve per guadagnare denari, cosa che sembrerebbe tra tutte la più importante.
Siamo il paese della movida, troppo spesso alcolica, che coinvolge giovani preda di una esasperata omologazione, che guarda al corpo, alla superficie, alla crosta senza aspettative e desideri di profondità. Non è dunque la paura del contagio che tiene i giovani lontano dal teatro, quanto un disinteresse diffuso colpevolmente a piene mani, quasi propagandato come un modello vincente ed egemone.
Allora perché preoccuparci del teatro di avanguardia, quello che ai giovani potrebbe infatti interessare di più? Proprio perché rappresenta una via d'uscita per una società che sembra dimentica della sua storia e della sua grande cultura, quasi rassegnata a diventare manovalanza per l'intera Europa.
Non si tratta di piagnistei dunque, della puzza di piedi di tanti artisti senza protezione come ha arditamente affermato un critico in streaming, quanto della esigenza di tutelare un patrimonio di tutti, anche di chi ancora non va a teatro, per il bene dell'intera comunità.