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Lo spettacolo “Da Medea a Medea”, andato in scena venerdì 17 luglio nel Teatro Greco di Siracusa, trae gran parte del suo senso dal contesto in cui è stato concepito. Il Covid 19, impendendo il normale svolgersi della stagione delle rappresentazioni classiche, ha inferto una ferita profonda a questa città, alla sua economia e alla sua identità culturale che, per molti aspetti, sono inscindibili dalle vicende del Teatro Greco. Così ha fatto bene l’Istituto nazionale del dramma antico a non arrendersi e ad organizzare una rassegna di monologhi e letture sceniche (intitolata “Per voci sole”) che, distendendosi nel corso di tutta l’estate, proverà a tener accesa la fiaccola siracusana della tradizione e della presenza del classico nella cultura contemporanea. La tradizione del classico: ovvero la riflessione critica e artisticamente operativa su che cosa ci possano dire ancora la cultura classica e in particolare la drammaturgia attica e su come e perché quest’ultima possa essere riletta, riproposta

e portata in scena. Non è poco, non è retorica: non può essere retorica a Siracusa, non può esserlo in Italia e nemmeno in Europa (se appena si prova a capire la carenza di senso che implicano molte delle attuali vicende dell’Unione Europea). E questo è il compito e, sostanzialmente, anche il destino dell’Inda: un destino che va oltre l’organizzazione materiale e tradizionale delle rappresentazione classiche. Nello spettacolo in questione sono quattro gli ingredienti che entrano in gioco: la potenza ancestrale delle parole della tragedia di Euripide (tradotta e adattata da Margherita Rubino) e la forza, seppur devastata dal male e dalla violenza, del testo “Cara Medea” di Antonio Tarantino, l’interpretazione di Lunetta Savino, il piano jazz di Rita Marcotulli, la cura registica di Fabrizio Arcuri. Due testi molto diversi e lontani che declinano, in segmenti consecutivi dello stesso spettacolo, il mito della donna straniera, tradita dal compagno fedifrago, isolata, alienata e capace della più atroce delle vendette nell’assassinio dei figli. Nel primo segmento la Savino tiene la scena e attraversa il testo euripideo con una certa evidente fatica (lettura, interpretazione, movimenti): il Teatro Greco è una brutta bestia per gli artisti, anche – come questa volta - a prospettiva ribaltata, ovvero con il pubblico seduto e ben distanziato nella enorme “orchestra” circolare e lo spettacolo che si dà sul bordo della cavea. La musica della Marcotulli è un incanto, si dispiega tesa ed elegantissima, riempie il testo antico di una straordinaria quantità di echi e di significazioni. Lo arricchisce. E tuttavia, al di là di tutto, manca a questa prova teatrale tensione e quel centro che una più attenta riflessione su questo genere di proposte (lettura, narrazione) avrebbe richiesto dal punto di vista della regia e da quello dell’interprete: il cuore drammaturgico della tragedia di Euripide è il mistero feroce, vertiginoso e insondabile dell’uccisione dei figli da parte di Medea e in questo lavoro questa voragine di male viene quasi attraversata senza che ad essa sia assegnata alcuna segnalabile rilevanza. Va sicuramente meglio nel secondo segmento: il testo di Tarantino è più nelle corde della Savino che in questo caso recita. Medea è una donna sola, abbandonata per strada e ferita dalla sciatta viltà del proprio uomo (Giasone) nel contesto feroce dei Balcani martoriati dalla guerra. La scelta registica è di restituire il potente basso-corporale della drammaturgia non solo con una recitazione che attinge a tutti i colori e le tonalità di cui questa attrice è capace, ma declinando il tutto con un accento pugliese che rende più agevole l’immersione in quel mondo popolare devastato e crudele. Molto meglio del primo segmento sicuramente, ma anche questa volta pesa l’assenza di una riflessione sul senso profondo per cui (anche) questa Medea si lascia vincere dalla gelosia, dal senso di vendetta, dalla “banalità del male” e uccide i figli con una accetta.

foto Maria Pia Ballarino