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A volte il teatro ha un volto diverso, forse inaspettato. A cominciare dalla rilevanza che assume il contesto. In questi mesi la morte aleggiava tra di noi, e ancora è qui a far sentire la sua voce, soprattutto in alcuni territori italiani molto colpiti dal male invisibile che viene da lontano. Aggiungiamoci una abbazia toscana antichissima, nella campagna di ulivi e tradizioni, e c’è chi giura che sia la più antica della toscana. A giudicare dalle vicende che hanno segnato la storia di Abbadia a Settimo, si direbbe proprio che sia così, tra fioriture e decadenze, trasformazioni del chiostro in abitazioni private e recupero certosino di strutture e ricchezze. Poi ci sono loro, quelli della Compagnia delle Seggiole. Nata oltre venti anni fa, si è fatta conoscere per il teatro di parola dalle scenografie scarnissime. Prima fu la volta dei gialli e poi la svolta qualche anno fa, con pièces collegate con la storia del luogo di rappresentazione. E che luoghi! Dal corridoio vasariano a Santa Croce fino alla nostra Abbadia a

Settimo. Il teatro si fonde con i muri che lo ospitano, a loro volta riflesso della storia millenaria degli uomini che vi sono vissuti, come solo in certe regioni d’Italia si riesce a concepire. Questa volta nuovo cambio di idee. La morte è lì sullo sfondo, quel mostro sacro che miete vittime a suo piacimento. Ma la vis comica toscana ha qualcosa da dire a riguardo, con umorismo e sagacia naturalmente. Così, nella Pieve che sembrava essere morta già molte volte e che sempre è rinata, ecco che si alternano sulla scena gag comiche, tasselli discontinui di un unico puzzle, l’esorcismo della morta attraverso l’unica entità spirituale che sia davvero temuta dalla morte, l’ironia. “Sono sempre i migliori quelli che se ne vanno…”, già il titolo la dice lunga sul fatto che l’unico funerale a cui si assisterà sarà quello dei luoghi comuni.
Il caro estinto alimenta calembours e scambi di persona, idiosincrasie sociali e incastri, un po’ Pirandello un po’ la commedia all’italiana, un po’ Fruttero e Lucentini e un po’ Arbasino.
Il risultato va colto come un grande affresco toscano del Rinascimento, nei dettagli certamente ma soprattutto nella sua visuale di insieme. Pieve a Settimo che rivive di luci e parole, la parola che si fa beffe della morte e la luna che splende piena sulla testa del pubblico, come solo in certi paesaggi toscani sa fare.
Sabrina Tinalli cuce un tessuto patchwork di parole e caratteri, mentre si susseguono e si incastrano Marcello Allegrini, Fabio Baronti, Giovanna Calamai, Anna Collazzo, Andrea Nucci, Claudio Spaggiari, Silvia Vettori e la stessa Tinalli.
Se urge la categoria letteraria in cui catalogare questo spettacolo, l’impresa si fa ardua per le continue contaminazioni di genere, stile, parola e finalità. Ma pare essere davvero questa la quintessenza del teatro dei nostri giorni, contaminare ed essere contaminato. Rilevante di sicuro l’intreccio indissolubile tra testo, contesto, tempo e spazio.
Interessante, da seguire.