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Elisabetta Pozzi, genovese. Dopo il diploma alla scuola di recitazione dello Stabile della sua città, ha caratterizzato la sua carriera, in prevalenza teatrale ma non solo, per quella rara capacità di rivivere e rinnovare i grandi personaggi che ha interpretato. Più drammaturga in scena, si direbbe, che semplice interprete, attraverso il personaggio ha spesso saputo offrire nuove e inaspettate chiavi di lettura anche al testo che la impegnava e alla scrittura scenica che la chiamava e la chiama alla ribalta. Ha stupito e si fa apprezzare per questa sua qualità unita ad un approccio, nonostante tutto, semplice e diretto, da non-diva, pur se diva a ragione potrebbe essere ormai definita. La intervistiamo al telefono prima del suo ritorno a Genova con una delle sue più interessanti interpretazioni, la “Elena” dal poemetto di Ghiannis Ritsos, la cui revisione scenica risuonerà nel centro stesso della città, della polis che in fondo l'ha formata.


MDP: Signora Pozzi, Elena è personaggio icastico, paradigmatico e fortemente simbolico del femminile in tutte le sue sfumature e anche ambiguità, e per questo ha traghettato l'immaginario offrendosi alle più controverse versioni e interpretazioni, a partire dall'encomio ovvero l'assoluzione nel famoso testo di Gorgia. La sua scelta interpretativa della Elena di Ghiannis Ritsos come si colloca in questo contesto così stratificato?

EP: Ritsos, da grande poeta quale è, come sua modalità utilizza il mito in generale per raccontare altro. Dunque avendo vissuto quindici,vent'anni in stato di costrizione, in prigionia, aveva bisogno di scrivere di sé, utilizzando i personaggi del mito per narrare del suo tempo. La natura di questi personaggi, infatti, la loro essenza non muta di fronte al mutare dei tempi. Lui dunque greco, amante della grande cultura del V secolo e della tragedia antica, lui profondo conoscitore di tutto questo, insomma si impadronisce di quei personaggi e di quegli eventi, essendo essi parte del suo DNA, in maniera più semplice e profonda, da Ettore ad Agamennone e via narrando. Pertanto si serve anche di Elena soprattutto, secondo la mia interpretazione e secondo quanto percepito anche dalla conoscenza condivisa con Nicola Crocetti, suo grande traduttore, per raccontare il tramonto del mito della bellezza. Anche perché quando scriveva questi versi, erano gli anni '70, era ormai tramontato nella comune percezione il concetto della bellezza come riferimento principale della nostra cultura, della nostra civiltà. Come asseriva anche Camus, per il quale la nostra civiltà occidentale ha ormai negato la bellezza, così che noi abbiamo nutrito la nostra disperazione con la bruttezza e con le convulsioni. Ritsos, in qualche maniera, ha detto la stessa cosa, non ha parlato cioè di Elena, che è definita non a caso la 'multiforme' ovvero la 'mutaforme', nelle diverse interpretazioni del suo mito, dall'Iliade allo stesso Gorgia e oltre, ma piuttosto ne ha parlato come Mito al suo tramonto, in quanto proprio la cultura contemporanea ha negato Elena e il suo mito, l'ha esiliata. Dunque l'Elena che va in scena, attraverso la trasposizione di questi poemetti che sono nella sostanza monologhi, è una Elena dalla lucidità estrema. Una lucidità esercitata attraverso il guardarsi da lontano, con ironia, perché come dice lei stessa, le passioni sono perdute, sono inaridite, le cose hanno perso senso, si sono svuotate. Non c'è più, cioè, la pienezza della vita in cui lei era simbolo di bellezza, in cui era ammaliatrice e scatenatrice di guerre, era distruttrice di uomini e di navi, come si narrava. Lei è ora proprio fuori dalla storia, addirittura confonde i nomi, Menelao, Agamennone, Paride si sovrappongono e vengono dimenticati, di loro restando solo piccole cose, dettagli.

MDP: In particolare il segno per così dire più immediato e anche più superficiale del ricordo di questa donna è, appunto, nel fatto che a causa della sua bellezza fisica gli uomini scatenarono la Guerra di Troia. Non ritiene che questo elemento debba e possa essere superato nella lirica trasposizione di una vecchiaia che può mostrare qualcosa di più resistente e persistente, nella relazione uomo-donna ma non solo, della semplice bellezza fisica e del suo inevitabile  sfiorire?

EP: Indubbiamente, Elena proprio di questo parla, della resistenza contro il tempo, contro il sopruso del tempo e anche contro la sua ingiustizia, e così il mito in un certo senso si allarga, ricordando anche quanto nella cultura greca il concetto di bellezza fosse legato a quello di bontà, kalos kagathos dunque. La bellezza è anche bontà, è anche giustizia, è emanazione dello spirito profondo, qualcosa dunque di estremamente ampio. Ovviamente nel momento in cui questo concetto è incarnato in un personaggio, in una donna appunto di straordinaria bellezza, allora il mito e il suo racconto prendono sfumature incredibili, proprio per quanto e in quanto riguardano il passaggio del tempo e la resistenza a tutto questo. E la resistenza è considerata, da Ritsos, che un campione di resistenza in effetti è stato, l'elemento che fa si che l'uomo sia uomo, che l'essere umano sia essere umano, tant'è che la frase centrale del testo dice: “laddove qualcuno resiste senza speranza, è forse là che inizia la storia umana”. La storia come la chiamiamo e con lei ha principio anche la bellezza dell'uomo. Nella resistenza continua, e talvolta senza speranza, che la caratterizza, è là che inizia l'umanità. In questo l'essere umano è essere umano, a differenza di tante altre creature; nella resistenza al tempo vi è l'emblema dell'uomo. Dunque a mio avviso il poemetto di Ritsos è uno dei più alti in quanto prende in considerazione l'essere umano nella sua totalità. Nella sua resistenza, nella sua asprezza e anche nella sua debolezza, nella sua fragilità.

MDP: In proposito, la nostra fluida contemporaneità sembra coniugare il femminile in una dimensione sospesa tra apparenza e libertà. Riportare, anche con questa drammaturgia  l'attenzione estetica dentro questa contrapposizione alla luce di una maggiore autenticità della relazione tra i generi può, secondo lei, essere efficace?

EP: Io ritengo che efficace lo sia, assolutamente. L'indicazione, il suggerimento arriva, a mio avviso, fortissimo. Da parte mia frequento letterariamente Ritsos dagli anni 90, talora lo affronto anche nella sua lingua, in quanto riesco un po' ad avventurarmi nella lettura dell'originale, e trovo che sia stato molto coerente con la nostra modernità e che lo sia tuttora.

MDP: Condivido. In particolare Elena, in questo testo, è vista con gli occhi, seppur poetici, di un uomo, e anche la regia è al maschile, una visione che dunque slitta inevitabilmente nella differente percezione della vecchiaia e dell'invecchiamento del fisico. Ricordando Eleonora Duse che sapeva spesso forzare e rinnovare i personaggi femminili che 'indossava', quanto la sua interpretazione ha inciso e corretto questa percezione antica e difficile da superare ma forse non più attuale?

EP: Devo dire che noi, anche perché in genere Ritsos nei suoi poemetti scrive un prologo ed un epilogo in cui descrive le situazioni nelle quali la narrazione lirica si sviluppa, e anche in questo caso racconta il luogo e i personaggi che saranno il riferimento o l'interlocutore cui il protagonista o la protagonista parla, noi, dicevo, non abbiamo sentito nulla di identificabile in quel senso. Lui, a nostro avviso, non descrive una vecchia decrepita e sfiorita, lui vuole attraverso un personaggio millenario descrivere “la” vecchiaia e il tempo. Infatti in quella vecchia immobile nel suo letto, lui voleva innanzitutto raccontare il contrario dell'immagine che di Elena noi abbiamo sempre avuto. Racconta dunque di una donna bionda e appunto bellissima, ma è, questa, una bellezza che non è neanche descritta o descrivibile “realmente”, è una bellezza che diventa mito, che non è, appunto, reale. Non c'è una descrizione della bellezza di questa donna, detta la 'mutaforme', ma solo la sua memoria tramandata da quello che dicevano di lei gli antichi, i troiani e gli achei che “per costei sopportano durature fatiche”. Questo di lei sappiamo. Ritsos, dunque, non la descrive questa figura se non come decrepita, neanche vecchia, appesantendo viepiù questa sua attuale condizione. Anche se, va detto, in questa sua immobilità, che Ritsos narra, diventa quasi una maschera che parla, come nell'antica tragedia che metteva in scena attraverso le maschere, così da non essere identificabili i personaggi con gli esseri umani che lo sopportano in scena. Noi, poi, in realtà non abbiamo seguito questa sua indicazione. Io all'inizio mi trucco in scena, parlo con gli spettatori in quanto credo che in questo momento andare in scena sia un grosso problema per me ma non solo. Infatti in queste poche repliche di “Elena” ho avuto difficoltà, in quanto non so più chi sono in questo momento e non conosco più le persone che ho davanti. Percepisco che qualcosa è cambiato, in noi e nel tessuto sociale, e che quindi abbiamo la necessità di riguardarci in faccia e capire chi siamo prima di poter tornare in scena. Detto questo, quello che ci sembrava interessante, nel testo, era il discorso intorno al tramonto di un mito e dunque non ci siamo soffermati sulla decrepitezza di “lei”. Io mi presento in scena esattamente come sono, ho una parrucca bianca, tra l'altro bella perché folta, ma per il resto mi sono ispirata a personaggi come Brigitte Bardot ed in effetti la drammaturgia è ambientata in quello che potrebbe essere un nigth club, come se lei fosse una vedette, una diva del varietà quale ad esempio Vanda Osiris, personaggi appunto che parevano arrivare dal cielo quando scendevano quella lunga scala. Noi ce la siamo immaginata così, perché ci sembrava scritta così. In questo vecchio locale dove vive praticamente esiliata, con un vecchio musicista che suona musiche da ballo per lei anche se nessuno più balla. Lei ha ancora la sua dignità, però, mantiene la sua bellezza proprio attraverso l'ironia, attraverso la sua capacità di richiamare stupide leggende, Troia, la guerra, gli amori degli uomini. Parla dunque di sé in maniera così profondamente 'altra', profondamente ironica, con distacco e nella accettazione del tempo che trascorre. Dice di ricordare gli incontri con i suoi passati amanti e di essersi spaventata solo dal vedere passare sui loro volti anche i suoi anni. Lei in questo poemetto, o almeno in quanto io vi ho letto, non si è mai percepita come bella, poiché lei è passata, è già mito. Nel momento in cui Ritsos l'ha messa dentro una storia contemporanea in cui essa stessa in quanto mito non può più esistere, soltanto in questo senso, nel senso del mito, lei non esiste più. Dunque lo accetta, accetta la morte e la racconta come allontanamento di tutto ciò che è stato, di tutto ciò che ha avuto, a partire dai suoi amanti di cui, come detto, dimentica i nomi e parla in maniera assolutamente altra. L'unico momento vivo che gli rimane è quel momento di immaginaria libertà, immaginaria in quanto Ritsos ritiene che il concetto di libertà non esista veramente, che sia un concetto che ci inventiamo noi, è quel momento in cui camminò sulle mura di Troia ed ebbe la sensazione di ascendere al cielo, per un attimo. Nel momento in cui ha quella sensazione, in lei si accende di nuovo, per così dire, anche la sensazione della libertà. Ma subito dopo dice: “ma cosa mi rimane ancora di tutto ciò?”: una libertà immaginata e immaginaria, un gioco del destino e della nostra ignoranza. Quindi io credo che, oltre la Bellezza ed il suo sfiorire, Elena parli di Libertà, quella sensazione di libertà che alla fine è quella che lega tutti gli esseri umani che si pensano liberi ma che liberi non sono mai veramente. Non ci sono possibilità di libertà nel nostro essere nel mondo. Noi l'abbiamo interpretata così, l'abbiamo letta in questo modo. Io la racconto e poiché la racconto ne sono insieme dentro e fuori. Metto questa parrucca ma a un certo punto la guardo mentre la descrivo. C'è una versione precedente in cui io entravo in scena come una Elena molto fascinosa ma che in fondo ride di sé, in quella sorta di gioco che lei fa con se stessa, che è bellissimo, con queste ancelle che la prendono in giro ma con cui lei non si mette mai alla pari. Pensa infatti di loro che “un giorno morremo, anzi un giorno morrete”. Comunque la sua consapevolezza di sé è altra, è da un'altra parte, è un grande concetto, una grande immagine, Elena, che però, a seconda delle epoche, nasce e muore, rinasce e rimuove. È quindi come esiliata dal suo femminile, c'è solo un momento in cui ne parla ma che in fondo non riguarda neppure il suo femminile. Quando dice di questo esilio dentro i nostri stessi abiti che invecchiano, dentro la nostra pelle che avvizzisce. Dunque lei si sente esiliata, in quanto è il nucleo stesso del concetto di bellezza che continua a sciogliersi e ad incarnarsi in corpi che comunque avvizziscono, in abiti che comunque invecchiano e si spengono. È un po' come tutta la vita, in fondo inspiegabile e dove ognuno arriva fin dove può vedere del momento in cui siamo.

MDP: Prima di chiudere, a proposito di grandi personaggi femminili, vorrei  citare un altro grande personaggio da lei recentemente interpretato e profondamente rivisitato, la “Lady Macbeth” del Macbeth Remix di Sanguineti/Liberovici. C'è una linea di continuità in queste ed altre sue scelte “al femminile” che, tra l'altro, le hanno guadagnato il premio “Eleonora Duse”?

EP: Innanzitutto devo dire che il premio “Eleonora Duse”, che mi è stato assegnato qualche anno fa, è un premio che ho apprezzato tanto perché teneva conto, appunto, delle mie scelte, scelte che continuo a fare, sia di personaggi, sia di scritture sceniche che mi sono state care. Parliamo anche di televisione e di cinema, seppure lì io ho lavorato soprattutto nei primi anni della mia carriera. Parliamo ad esempio di alcuni importanti lavori di Luca Ronconi o di Carmelo Bene. Io credo infatti che nella vita di un'artista le scelte che compie siano parte della sua vita e in fondo raccontino di sé, di come si è e anche di come, piano piano, si cambia. Per cui la mia vita artistica racconta tanto di me, della mia caparbietà e della mia resistenza, appunto, perché oggi, come si può ben capire, non è facile resistere e andare per questa strada. Al riguardo io devo dire tra l'altro che sono molto felice che la mia strada si sia incrociata con quella di Davide Livermore.

MDP: Un ultima domanda allora, e anche, se vogliamo, una rivelazione in proposito. Il suo legame con Genova e con il suo Teatro Nazionale è profondo, come dimostra la sua partecipazione al progetto T.I.R., voluto fortemente dal Direttore Davide Livermore, che da me intervistato ha avuto parole di elogio e anche gratitudine nei suoi confronti. Quando la rivedremo dunque sui nostri palcoscenici con suoi nuovi lavori?

EP: Sicuramente, con Davide abbiamo già progetti di collaborazione. Ripeto per me questo incontro è stato qualcosa che definirei miracoloso, poiché vivevo un momento in cui cominciavo a pensarmi anche in altri luoghi, non necessariamente sul palcoscenico. Già prima della pandemia la situazione era difficile, ma ora lo sarà ancora di più, per cui è necessario che ciascuno si metta una mano sulla coscienza e non pretenda chissà che cosa. Bisogna continuare su questa linea di resistenza in quanto temo che i tempi non saranno favorevoli e, anche se le cose sono migliorate, nel complesso le prospettive non sono rosee. In questo senso ritengo miracoloso il mio incontro con lui, il fatto che Davide mi abbia cercato, stimando il mio lavoro. Grande è la mia stima verso di lui, soprattutto per la sua capacità di inventare ed inventarsi. Ad esempio questa iniziativa di T.I.R., peraltro già sperimentata, e soprattutto il fatto di chiamarla “Teatro In Rivoluzione” perché noi  non siamo in un momento di rivoluzione, dobbiamo esserne consci,  e quindi dobbiamo essere in grado di cambiare, di essere capaci di “rivoluzionare” il nostro modo di stare in scena, rivoluzionare il nostro modo di approcciarci alle persone a cui parliamo. Anche perché una rivoluzione passiva, per quello che è successo, è comunque in atto. Qualche mese fa non parlavamo così, non ragionavamo così, bisogna essere molto onesti a dirlo. Quindi io sono felice, anzi di più, e ho aderito all'idea di fare una serata con questa “Elena”, anche se forse non è lo spettacolo più giusto. Certamente Paolo Rossi è un trascinatore, ovvero “Bastiano e Bastiana” è una operina che è un gioiello. Noi con “Elena” proponiamo non uno spettacolo che “spacca”, come si dice, ma in una certa maniera uno spettacolo più intimo.

MDP: Io credo che comunque bisogna avere fiducia negli spettatori. Anche se stiamo attraversando un momento complicato, caratterizzato per di più da un abbassamento generalizzato dei livelli culturali, penso infatti che il pubblico, se opportunamente sollecitato, sappia rispondere adeguatamente. Come insegna la storia del teatro, che ha visto i grandi della scena, da Shakespeare a Molière, parlare a tutti, monarchi o plebei, dal palcoscenico, così non bisogna abbassare il livello delle offerte culturali solo per andare incontro a presunti gusti del pubblico. Questo, a mio parere, è stato indotto in buona misura dai grandi media e da una televisione che ha man mano, e purtroppo enormemente, abbassato i livelli delle sue proposte e del suo stesso linguaggio. Io in proposito ricordo gli anni in cui in televisione lavoravano grandi intellettuali, da Enzo Siciliano a Pier Paolo Pasolini, fino a Carlo Emilio Gadda. Era la televisione che acculturava a partire dall'uso e dalla evoluzione della stessa lingua italiana. Il pubblico, a qualunque classe sociale appartenesse, non perdeva, tra gli altri, l'appuntamento con il Teatro, ogni venerdì della settimana. Anche per questo io sono molto contenta che il Teatro Nazionale di Genova e il suo direttore Livermore l'abbiano chiamata così da offrire al pubblico di Genova questo suo spettacolo, che è uno spettacolo profondo, che fa riflettere, perché riflettere è ciò di cui abbiamo più bisogno, che merita dunque attenzione e che, per tutto questo, si vedrà volentieri.

EP: Anche secondo me, ed io infatti lo faccio con trasporto e con grande amore. Mi piace anche, e molto, questa nuova versione che porge il testo per così dire in maniera diversa. Mi piace molto in particolare che il pubblico assista alla mia trasformazione. Io entro in scena come me stessa, con mio marito che suona e stavolta è in scena assieme a me, ma nel momento in cui mi trasformo è come davanti allo specchio di Alice, è come portare il pubblico dentro un sogno, dentro ad un'altra visione della vita. E devo dire che questa versione, che abbiamo fatto prima solo quattro volte e la quarta sarà proprio Genova, ha molta forza e impatto in quanto, da quello che ho sperimentato prima c'è in essa molta complicità verso il pubblico, una complicità che non mi aspettavo.

MDP: In proposito sento di dover di nuovo ricordare Eleonora Duse, quella Eleonora Duse che tutte le sere sia Gramsci che Gobetti andavano a vedere perché, dicevano, tutte le sere era diversa anche se lo spettacolo era lo stesso, in quanto nella sua interpretazione sapeva far entrare quel flusso di vita che ci rende ogni giorno diversi, perché anche se amiamo i codici che ci rassicurano, in realtà siamo continuamente messi in discussione da una vita che ogni giorno cambia e ci cambia. Quello che lei ha detto è dunque molto bello, per cui ogni rappresentazione sarà, ogni volta, nuova, e sarà molto interessante sentire la sua voce risuonare a Piazza Della Vittoria, proprio al centro della “polis”.

EP: Anch'io sono convinta che sia così, e anche per questo ho accettato di fare poche serate, perché sono certa  che, magari a distanza di quattro o cinque giorni, ogni sera si porta in scena qualcosa di nuovo, che attraverso quelle parole esce e si comunica, quelle grandi parole con cui possiamo scoprire qualcosa.

Foto Editoriale Libertà