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Quando la voglia o, meglio, l'esigenza di esprimersi degli artisti si incontra con la necessità di una comunità di ritrovare il teatro, il proprio teatro, luogo ineludibile e insostituibile di consapevolezza e profondità, snodo e punto di caduta di un processo di identità che, prima e insieme al suo essere collettivo, è soggettivo e spesso 'singolare'. Un luogo, un punto di incontro capace di sviluppare ancora più forza proprio in circostanze straordinarie ed eccezionalmente avverse, sui cui è ormai superfluo ritornare. Eccoci dunque a Rovigo per questo festival che, come i tanti che ho in questi mesi incrociato sulla mia strada, ha voluto esserci di nuovo con una edizione un po' rimaneggiata forse, ma che nel complesso nulla ha da invidiare alle quindici che l'hanno preceduta, anzi. Un festival, come sua cifra consueta, organizzato in tre sezioni, “generazioni” che ospita compagnie consolidate di respiro europeo, “opera prima, segnalazioni” che accoglie compagnie e spettacoli che le prime

hanno voluto segnalare, e infine “opera prima, bando” esito di una selezione da parte degli organizzatori tra le oltre 500 proposte ricevute al “Bando d'invito” che il Festival ha lanciato contestualmente alla sua decisione di aprirsi comunque, oltre gli ostacoli che allora ne intralciavano la nascita.
Tre livelli, dunque, di partecipazione, uniti però da una comune matrice, quella che appunto caratterizza un festival che si denomina “Opera prima”, una matrice che suggerisce la volontà di dissodare il terreno della creatività teatrale per stimolare ed aiutare la crescita dei tanti fermenti, dei tanti semi che su quel terreno cadono ma che spesso inaridiscono per mancanza di 'cura'.
Uno sguardo questo che nasce all'interno di un gruppo di artisti. Il Teatro del Lemming organizzato da anni intorno al suo direttore Massimo Munaro, compagnia di ricerca con una estetica consolidata, con un punto di vista artistico originale e coerente ma insieme da sempre aperto alla diversità, di concezione e di finalità, di punto di vista e percorso, ed il Festival ne è ancora una volta evidenza.
Ha dovuto così guadagnarsi un po' più di tempo rispetto al passato, dal 6 al 13 settembre, e non ha potuto accogliere, come gli altri eventi estivi, compagnie internazionali, anch'esse alle prese con analoghe difficoltà, ma non ha rinunciato alla sua essenza, che è stata ancora una volta quella della qualità e della varietà, di linguaggi, di proposte e appunto di “generazioni”.
Questo il resoconto dei miei tre giorni di festival, dal 9 all'11 settembre.

METAMORFOSI – Teatro del lemming
Spettacolo ideato ante-covid, ripensato per il Festival, che continua il percorso di Munaro e del Lemming intorno al mito, come luogo di decantazione dell'umanità di ogni uomo, e soprattutto intorno all'enigma e alla capacità del teatro di porre le giuste domande. Le giuste risposte spettando ovviamente, se esistono, a ciascuno di noi. Ovidio è la metafora archetipa e personale, quanto mai concreta, delle trasmutazioni del corpo, del nascere e del decomporsi della materia nella sua perizia lontano dall'essere che l'ha prodotta. Così è l'umanità e tutti gli uomini e le donne che si affacciano ad una ribalta sconosciuta e che scompare e ricompare ad ogni momento. La scena è dunque, nella ricerca del Lemming, il segno del passaggio di questa nostra umanità nell'esistenza del mondo, ma insieme il suo luogo di comunicazione, un suo confine, poroso e osmotico, in cui pensare e intravvedere la profondità che ci circonda e che custodiamo dentro, oscura ma che improvvisamente può aprirsi alla conoscenza. Artaud ha parlato di membrana che divide la realtà dell'esistenza perduta nel mondo dalla realtà della sua essenza. Un cerchio di cinque spettatori, dentro e attorno al quale gli attori si muovono, recitano e soprattutto sollecitano quell'emozione e quel “movimento dei nervi” che solo il teatro consente. Un spettacolo intenso e commovente, immerso nelle belle musiche composte dallo stesso Munaro. Palcoscenico di “forme perdute” per la drammaturgia, la regia e, appunto le musiche di Massimo Munaro. Con Alessio Papa, Diana Ferrantini,Fiorella Tommasini, Katia Raguso, Marina Carluccio e Massimo Munaro. Al Teatro Studio, storica sede del gruppo.

I MIEI FRAGILI AMICI – Valentina Dal Mas
Primo Studio, in cui, come sempre più spesso capita, la danza ritrova, per così dire, il teatro, cioè quella sua intima dimensione drammaturgica, talora dimenticata in eccessi tecnici o razionalistici. Il mondo quale è, in scena, ritrovato attraverso movimenti di sottrazione, quasi impercettibili, movimenti che aprono uno spazio poetico in cui precipitare le emozioni. I fragili amici sono fiori secchi, abbandonati da altri e ricuciti e ricomposti pazientemente nel distacco dei giorni del lockdown. Ma sono soprattutto, artisticamente, un metaforico recupero delle immagini depositate nella nostra intimità e profondità, fragili come fiori sul punto di dissolversi nella solitudine. Uno spettacolo di danza e recitazione condotto dalla protagonista sul filo di una più profonda sincerità, che supera e coinvolge tecnica e mimica. Testo e coreusi così riescono a profondamente amalgamarsi e dimostrano un talento raro da cui non possiamo che attenderci esiti in ulteriore crescita. Valentina Mas è attrice e danzatrice formatasi nella Compagnia Abbondanza/Bertone, che al Festival l'ha segnalata, oltre ad occuparsi di laboratori di teatro e danza in scuole pubbliche e strutture sociali per anziani, bambini e disabili. Prodotto con il sostegno della Compagnia Abbondanza/Bertone e di La Piccionaia-Centro di produzione teatrale, di e con Valentina Dal Mas, illustrazione Anna Menti. Ai Giardini Due Torri.

LOOP – Livello 4
Studio intorno al mito di Sisifo. Spettacolo molto corporeo che del mito riprende in particolare l'aspetto della reiterazione e della ripetitività come trasformazione logico-metaforica dell'esistenza quando perde contatto, quando lo spazio tra l'essere e l'esistere, tra l'essenza e la vita sembra farsi troppo ampio per essere attraversato. Ripetere continuamente, anche uno sforzo indicibile, è dunque sostituire senso, sovrapporre il nulla al significato. Uno specchio tendenziale del contemporaneo, che si apre alla sola salvezza conosciuta, l'ancoraggio al corpo come concreta presenza di sé e come Destino cercato. Opera prima segnalata da Giuliano Scabia. Regia di Alessandro Sanmartin, con Marco Pasquale, Maria Perardi, Anna Peretto, Vittoria Rossino, Alessandro Sanmartin, Leonardo Zampa. Ai Giardini Due Torri.

HYENAS – Compagnia Abbondanza/Bertoni
Una irruzione di “forme di minotauri contemporanei” con tutto il peso simbolico e significante che trascina con sé. Si mostra innanzitutto come una rinnovata riflessione sul teatro, con suggestioni pirandelliane per i cinque personaggi che si affacciano sul palcoscenico (in cerca di un autore ovvero di sé?). La maschera per un ballo in maschera ne è il filo conduttore ma anche la paradossale e ribaltata significazione, poiché, come diceva il grande Nisseno, ci sono “maschere che celano e maschere che svelano”. Così la drammaturgia in danza si trasforma in un attraversamento del contemporaneo, tra rituali di moderna aggregazione, globalismo tribale o tribalismo globale se si vuole, insieme a incompiute pulsioni alla diversità, alla distinzione letta e riconosciuta solo come prevaricazione, nel ghigno della iena. Movimento e immobilità, parola e silenzio si alternano e si sovrappongono, mentre questi strani o estranei personaggi sembrano a volte staccarsi dalla ribalta per cercare qualcosa tra il pubblico, nel suo sguardo e nel suo silente pensiero e soprattutto oltre la maschera che ciascuno di noi porta vivendo. Uno spettacolo di teatro/danza di grande intensità e precisione che prefigura man mano un suo esito paradossale che abbiamo pirandellianamente anticipato: oggi la maschera appare (a teatro?) più sincera del volto. Di Michele Abbondanza e Antonella Bertoni, con Marco Bissoli, Sara Cavallieri, Cristian Cucco, Ludovica Messina, Francesco Pacelli e Eleonora Ciocchini, che hanno collaborato con le coreografie. Collaborazione alla drammaturgia di Danio Manfredini, realizzazione maschere Nadezhda Simeonova. Con il sostegno di MIBACT, Provincia Autonoma di Trento, Comune di Rovereto, Fondazione cassa di risparmio di Trento e Rovereto. Sezione “generazioni” al Teatro Studio.

SARAJEVO, MON AMOUR – Farmacia Zoo:E'
Drammaturgia dal titolo suggestivamente godardiano, non a caso, squisitamente politica nel suo miglior significato possibile, ricordando Piscator, e cioè capace di restare ancorata alla realtà storica senza perdere la superiore verità dell'arte e della poesia. Tra il 1992 e il 1996, come tutti purtroppo sappiamo, la capitale bosniaca Sarajevo rimase tragicamente assediata in una assurda guerra etnica, sotto gli occhi delle telecamere forse, ma con il mondo che preferiva altrove guardare. Due giovani, di etnie diverse si amano e cercano la loro vita insieme e la salvezza del loro sentimento oltre il ponte di Vrbanja. Un cecchino li uccide e per 8 giorni impedisce a chiunque di avvicinarsi. Per tutto quel tempo Bosko Brkic e Admira Ismic giacciono abbracciati su quel ponte. Questa la storia raccontata da un cronista statunitense della Reuters , Kurt Schork, le cui ceneri dopo la sua morte, anch'essa violenta mentre raccontava un'altra guerra, sono per metà sepolte vicino ai due giovani. Uno spettacolo raffinato, suggerito anche dal sotterraneo clima di intolleranza che ci attraversa, che ci racconta tutto ciò, trasfigurandolo in un dialogo continuo e ininterrotto tra noi e quell'evento, oltre le storie singole per raccoglierle e significarle in una esperienza collettiva nel qui e ora della sua rappresentazione. Per riuscire in questo usa con sapienza e abilità diversi linguaggi scenici, quasi raccolti intorno a quella telecamera che prima inquadra il racconto e i suoi narratori e poi trasmette immagini della realtà dei suoi protagonisti, lontana forse ma così intimamente presente. Con Gianmarco Busetto e Carola Minincleri Colussi. cui si deve anche la ricerca drammaturgica e la regia. Regia tecnica di Marco Duse e Pietro Zotti. Con il sostegno del Teatro del Lemming – In Metamorfosi. Residenze per la ricerca teatrale 2019/2020, Estro Teatro – Fantasie Festival Internazionale di Regia teatrale 2019. Selezionata con il bando Opera Prima, al Chiostro degli Olivetani.

ALLA SORGENTE – Domenico Castaldo/LabPerm
Una occasione mancata purtroppo, che a presupposti interessanti e anche profondi non riesce a far seguire un esito scenico abbastanza coerente, tra suggestioni grotowskiane e intenti più classicamente drammaturgici poco amalgamati e anche contraddittori. Un tentativo di ritorno alle matrici della scena e al mito, ad essa collegato, della sua continua e dionisiaca rigenerazione, oltre la morte che è l'oggetto del racconto, ma che rimane un po' alla superficie, sul proscenio si direbbe, ove si perde il tentativo di ironia, con qualche semplificazione che ha un po' vanificato le buone intenzioni. Drammaturgia, canti e movimenti di LabPerm. Regia di Domenico Castaldi, con Domenico Castaldi, Ginevra Giachetti, Marta Laneri, Rui Albert Padul, Natalia Sangiorgio. Sezione Generazioni, ai Giardini Due Torri.

L'ECO DELLA FALENA – Cantiere Artaud
Drammaturgia intensa, giocata soprattutto sul gesto e sull'atteggiamento del corpo, che incorpora talvolta e smaschera la parola letteraria. Una donna al centro della scena e la sua ombra/doppio maschile che appare e scompare specchiandosi in lei ed in se stessa. Tempo, ricordo e soprattutto l'attesa di una rivelazione che entrambi recuperi e finalmente salvi, si dipanano sulle onde di una presenza/assenza, quella di una Virginia Woolf solo suggerita, come una suggestione lirica, dalla trama breve delle sue parole. Sullo sfondo le porte misteriose di un futuro che può essere solo immaginato. Una drammaturgia che segna la maturazione di un énsemble giovane, che a partire da una più classica recitazione ha affinato il suo sguardo artistico appunto sul gesto che illumina. Scene e regia di Ciro Gallorano, con Sara Bonci e Filippo Mugnai. Disegno luci di Federico Calzini e Ciro Gallorano. Con il sostegno di MIBACT  e di SIAE nell'ambito del programma “Per Chi Crea”. Selezione del Bando Opera Prima, al Teatro Studio.

TERZO TEMPO – MOMEC Memoria in Movimento
Installazione, spettacolo, o meglio ancora luogo teatrale che ha attraversato tutto il festival ed il suo tempo, quasi una nota di sottofondo, una musica di accompagnamento, e ne ha raccolto, giorno per giorno, il senso profondo, nella sua contingenza e oltre la sua contingenza. Questo è stato e rimarrà il luogo della memoria e dell'incontro con le sue figure o ombre, capaci di essere talora più concrete e materiche degli stessi corpi che ci circondano. Un terzo tempo appunto, dopo quelli che scandiscono la nostra vita. Uno spettatore per volta vi accede, tra i forti profumi delle piante aromatiche, e vasi di terra umida e feconda pronta ad accogliere. Musiche e voci, ed un invito a lasciare una traccia dei ricordi richiamati ed improvvisamente emersi in solitudine, una traccia da piantare come un seme che maturerà nella terra scura. Una produzione del Festival, alla Gran Guardia, da una idea di Mario Previato. Assistenza artistica Fiorella Tommasini, Angela Tosatto, Antonia Bertagnon. Assistenza tecnica Alessio Papa.

Chiudo così il mio diario di un Festival caratterizzato, come pochi altri, da una presenza viva della comunità, frequentato cioè non solo da una élite di addetti al lavoro, ma da spettatori veri, di ogni angolo della città. Un vero punto di incontro e di caduta dunque, non solo vetrina, ma tappa di un cammino che non si interrompe.