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E sono 20! Quattro lustri di drammaturgia contemporanea che il Festival Tramedautore mette in vetrina con successo. Fino al 20 settembre a Milano va in scena l’edizione 2020 sempre a cura del comitato artistico con Angela Lucrezia Calicchio, Andrea Capaldi, Gian Maria Cervo e Michele Panella, e realizzato da Outis – Centro Nazionale di Drammaturgia Contemporanea, in collaborazione con il Piccolo Teatro di Milano e con Mare Culturale Urbano. La magia si percepisce anche questa volta, pur tra mascherine e ingressi contingentati. Sarà per la sede storica del Piccolo Teatro di via Rovello, intimista al punto giusto, sarà per la qualità della proposta 2020, non resta che gustarsi questa full immersion di dibattiti, spettacoli, presentazioni. Si conferma la mission storica del festival, squarciare il velo sulla drammaturgia di tutto il mondo consapevoli che proprio lì si crea il nuovo, il linguaggio di domani. Ma oltre a ciò – e qui sta la chiave del successo – su questi palcoscenici si disvela l’oggi,

l’urgenza, la ferita aperta. Solo il teatro, direbbe Pirandello, ha quel potere di sintesi e di acume capace di evidenziare contraddizioni e idiosincrasie.
A Tramedautore è questa la sensazione più viva, la vitalità degli irrisolti del nostro mondo che sgorgano sulla scena con la loro carica urgente.
Non ci sono risposte, solo quesiti ritratti da angolature diverse. Questa l’essenza del nostro dramma contemporaneo. Le risposte le darà qualcun altro, a noi spetta individuare quale domanda bruci sottopelle.

Su questa suggestione, vogliamo soffermarci su un bellissimo testo rappresentato il 15 settembre, “Naufragium, uno studio” di Sonia Antinori, anche interprete insieme a Silvia Gallerano e alla regista Daria Lippi. L’evento è il primo dei quattro inseriti nel palinsesto promosso dal Comune di Milano “I talenti delle donne”.
 Il tema è vischioso, il Sessantotto, a rischio di inflazione o di ovvietà.
La pluripremiata Antinori spiazza tutti, avvia una sorta di flusso di coscienza frammentato in jingle, sigle, parole iconiche, oggetti del passato. Ma non è la coscienza di un individuo a produrre tutto ciò, bensì la coscienza collettiva, quell’unicum in cui fluiamo tutti noi. Proprio nel fluire indistinto, quasi una monotona litania di fondo, cominciano a definirsi tratti narrativi ancora labili. Pian piano si definiscono, prendono volto una figlia e una coscienza in pieno smarrimento verso gli avvenimenti del Sessantotto. Un papà barbuto, eroe della piccola ma improvvisamente scomparso. In viaggio, morto, dimenticato, rimosso. Una casualità svela l’arcano, è in carcere per brigatismo. Allora la grande histoire générale si diluisce nell’histoire particulière di una bambina che cresce con tanti interrogativi. L’età adulta complica ulteriormente le cose, quel padre è da odiare o ammirare? Le lettere mai giunte, ma raccolte dalla nonna iperprotettiva in una scatola lassù sull’armadio. La rabbia latente sottopelle. La finzione della normalità che normalità non è.
E intanto sullo sfondo si compiono quei grandi processi storici che portano i Sessantottini a sedere negli scranni a destra di Montecitorio, la contestazione a diventare reazione, certo pacifismo a impugnare le molotov.
Molto convincente la trama complessa della scrittura, che si risolve dalla frammentazione più disarmante a una trama fissa, ordinata, razionale. Quasi psicoanalitico, questo processo, che pare riportare l’ordine mediante la parola a partire dal caos primigenio.
Emoziona e coinvolge, soprattutto per la capacità di donare una valenza universale a una storia come tante.