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Riprende, o meglio continua perché mai si era fermato, il viaggio di Lenz, storico gruppo di ricerca di Parma, dentro il barocco, un viaggio sospeso tra il figurativo e il drammaturgico che ha trovato nel secolo d'oro spagnolo e in Pedro Calderon de la Barca, suo auratico e principale testimone, il suo stabile baricentro. Il Barocco, nonostante la sua più comune e banalizzata traduzione corrente, è quanto di meno superficiale e decorativo ci sia tra i linguaggi estetici e figurativi, perché al di sotto del segno apparente, dell'involversi figurativo ricercato e del percorso linguistico complesso, mostra e indica la profondità dell'umano e dell'umanità, la verità cioè che, essenziale e irriducibile, sta al di là e alla base della esistenza. Anzi il segno, apparentemente in superficie, è la via che apre a quella

profondità significante e significativa che può illuminare l'oscurità che la circonda e la vela, come il Cristo partenopeo. Oscuro come la notte ovvero lo sguardo verso un mondo ctonio ma profondamente vitale, oppure luminoso e bianco come la pietra di Puglia e di Sicilia, cielo che si apre e si popola delle nostre vite, il barocco è come i sogni che rischiarano talora il nostro sonno-morte.
Ma il barocco è anche, se non soprattutto, teatro, il teatro del mondo, ove e soprattutto in Calderon, come scrisse Walter Benjamin, “l'ambizione di toccare il cuore stesso dell'esistenza è … del tutto esplicito. In nessun altro testo ciò è più evidente che in La vita è un sogno: una totalità conchiusa in fondo paragonabile al mistero medievale, dove il sogno ricopre la vita desta come la volta del cielo.”.
È un viaggio a tappe, costruito in drammaturgie potenti e stratificate, che vivono costantemente sul filo del doppio e dello specchio, motore ultimo della riflessione barocca, anzi un viaggio fatto di “imagoturgie”, come le chiamano Francesco Pititto e Maria Federica Maestri, che da sempre sono “Lenz”, un termine quest'ultimo che sembra riassumere, interpretare e infine tradurre il barocco stesso, che attraverso l'immagine e oltre l'immagine illumina o meglio crea la verità dell'esistenza, terrena o trascendente che sia.
Snodo essenziale dell'intero progetto è dunque la rilettura e la riscrittura dei capolavori di Calderon, da “Il Principe costante” a, e soprattutto, “La vita è un sogno”, che vogliono essere la mappa di una ricostruzione del nostro presente in vista della costruzione di un nuovo futuro, di “Nuovi Mondi” appunto, di “un ipotetico quadro favoloso dell'umanità del futuro”, come suggeriscono, gli stessi Pititto e Maestri.
Al più famoso dramma di Calderon, “La vita è un sogno”, sono dunque sovrapposte, più che ispirate o riferite, le due imagoturgie che hanno caratterizzato l'evento nella giornata di sabato 10 ottobre.
Dramma secondo i più strutturato come il sofocleo Edipo, ma secondo altri meglio iscrivibile al più arcaico mito di Cronos e Zeus, dunque su un insieme di elementi che stanno tra l'interpretazione religiosa o inconscia del parricidio e quella politica del tirannicidio e del potere degenerato, in cui, come ha scritto Peter Szondi “la tragicità del destino,peculiare dell'antichità, si trasforma in ambito cristiano nella tragicità dell'individualità e della coscienza”, così assumendo, nella contemporaneità, un valore di veicolo di processi di identificazione, tra soggettività e comunità.
Due creazioni dalla stessa radice ma, attraverso una sapiente opera di inferenza e interferenza testuale, dagli esiti singolari, grazie anche alla capacità di individuale lettura scenica da parte delle due diverse protagoniste.

ALTRO STATO
La domanda tradizionale intorno alla vita, scivola qui con straordinaria sensibilità e naturalezza nella domanda intorno alla propria vita, alla propria soggettività, che proprio attraverso lo specchio ed il riflesso può trovare una dimensione paradossalmente più autentica. Dal pluristratificato testo seicentesco, qui la imagoturgia di Pititto estrae e  porta sul proscenio il rapporto ed il conflitto tra il servo-fool Clarino e il Principe-padrone Sigismondo, che tanto ha innervato l'immaginario estetico occidentale. Ma lo fa sfrondando ogni possibile dimensione superficialmente sociologica per indagare, ossia per dare spazio in scena, ad un percorso di recupero di identità, che è estetica ma anche psicologica, dell'attrice sensibile Barbara Voghera, colpita da una alterazione cromosomica, un recupero incentrato nel ribaltamento di quella che apparirebbe una naturale condizione di sudditanza, la malattia. Una ribellione dunque che è la rivelazione, sollecitata dalla polarità e dalla contrapposizione drammaturgica ed etica, del “corpo sottile”, quello che, come gridava Antonin Artaud, sta oltre e alla base della maschera provvisoria con cui attraversiamo ciò che chiamiamo vivere. Un corpo a-organico, in quanto prima degli organi sociali, e quindi autentico, vitale, sensibile e intelligente, capace di cogliere e trasmettere autenticità e sincerità. Attraverso e oltre quel 'sogno', che è calderonianamente la 'vita', la drammaturgia ci guida a percepire e mostrare la verità del nostro essere. Trascendenza e metafisica si fanno dunque concreto lavoro sul corpo e sulla sua performance, complessa e inquietante ma anche liberatoria, tra oggetti di scena che si trasfigurano e un burattino che ci ricorda la difficoltà ad essere noi stessi. Il corpo sentimentale in scena porta dunque su di sé vicinanza emotiva ed una capacità significante inconsueta. Uno spettacolo che si ribella alla cosiddetta realtà, questa sì falsa, per individuare la verità dell'immagine e dell'immaginato.

Traduzione, drammaturgia e imagoturgia di Francesco Pititto. Installazione regia e costumi di Maria Federica Maestro. Con Barbara Voghera. Musica di Claudio Rocchetti. Produzione Lenz Fondazione.

HIPOGRIFO VIOLENTO.
È questo il verso di esordio del dramma di Calderon, mantenuto nella grafia castigliana e dunque con l'accento (Hipògrifo) sulla prima o. Apre se vogliamo un dialogo più complesso e articolato con il testo antico mantenuto in fedeltà, come del resto nella precedente drammaturgia, e oggetto di una attività di espunzione e taglio, anche con frammenti in lingua originale, che ricorda certi travestimenti di Edoardo Sanguineti, anche per la totale libertà riconquistata al testo e nella sua piena messa a disposizione della scena. Al centro il doppio, della vita e del sogno, della illusione e della sua rivelazione ribaltatati (la vita è illusione e il sogno è la sua rivelazione), un doppio proiettato sulla natura come scenografia barocca del transito esistenziale e ricondotto in unità nell'uomo e nell'uomo-donna in scena che quel transito carica su di sé e interpreta, prima come aruspice e poi come attore. La brava Sandra Soncini è dunque Sigismondo ed è Rosaura, a sua volta uomo e donna sovrapposti, e nel gioco degli equivoci e delle false definizioni costruisce l'identità che solo nella relazione rivela la propria essenziale natura. La relazione che l'eros, in senso classico, struttura in attrazione-antagonismo che si sciolgono nel finale sospeso tra immanenza e trascendenza. Un riferimento colto anche in Grotowski, nel suo “Principe Costante”, l’amore cioè, scrivevo in mio saggio di qualche anno fa, come ‘tensione’, tra autentico e contingente, tra passeggero ed eterno, e come forza che ci spinge dall’uno all’altro. Una metafisica dell'esistere in fondo che si articola nel racconto cui la scena, fatta di rimandi simbolici tra pesanti aste metalliche e cuscini onirici, da il giusto spazio ed il giusto tempo, la contingenza che guarda al persistere del sé. Tutto si anima intorno alla umanità che la abita, che si trasfigura, che si trucca e si trasforma seguendo il ritmo di una esistenza in cui anche il confine della morte è apparenza o solo trasformazione.

Traduzione, drammaturgia e imagoturgia di Francesco Pititto. Installazione, regia e costumi di Maria Federica Maestri. Con Sandra Soncini. Musica di Claudio Rocchetti. Produzione Lenz Fondazione.

Un viaggio dicevo, e di quel viaggio ci è stato mostrato anche il resoconto filmato con la installazione visuale e sonora “Melancolìa contromano”, che ripercorre il passaggio nei luoghi di Calderon, tra Burgos, Almeria, l'Andalusia di Cordova e Siviglia e finalmente, oltre Gibilterra, l'Africa di Tangeri e di Ceuta, ora tragico incrocio di migrazioni. Ad ogni tappa permanenze figurative tra Delacroix e Goya, tra minareti e campanili. Sovrapposizioni e suggestioni performate e trasfigurate quasi a fissare la realtà sonora e visiva dell'immaginario.
L'appuntamento con Lenz è alla venticinquesima edizione del Festival “Natura Dèi Teatri”, dall'10 novembre al 18 dicembre a Parma.

Foto Maria Federica Maestri