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È una capacità rara, quando si ha a che fare con la cronaca e soprattutto con la cronaca più perturbante dei nostri tempi, saper andare oltre la superficie dell'evento, con le facili scelte e definizioni che ne conseguono, e cercare di penetrarne un senso più universale, in questo se vogliamo ancora più perturbante, e riuscire a trasformare la narrazione non tanto in immagine della Storia, quanto in declinazione della nostra più essenziale e anche metafisica umanità, ove libertà e verità giocano la partita vera, quella con la nostra autentica identità. In questo riesce la bella drammaturgia di Francesca Garolla, non teatro di narrazione né esperimento di meta teatro, ma un po' di entrambi in una lucida ricognizione delle domande che quasi mai ci facciamo dando per scontato ciò che, oltre la disattenzione e la fluidità dell'oggi che sembra tutto sapere ma ben poco sa, scontato non è. Una indagine con gli strumenti appuntiti dell'arte, che non rinuncia a stimolare e anche inquietare il pubblico,

a metterne in tensione i nervi direbbe Artaud, una ricognizione estetica intorno a ciò cui non sembriamo in grado di rispondere, a ciò che non sappiamo ma in cui, socraticamente, la coscienza di non sapere ci apre la strada verso quella risposta che non è della drammaturga o della scena, ma che è solo nostra anche se in quelle può mettere le sue radici.
Sono passati due anni da quando Haner, giovane, francese, europea, libera di quella libertà scontata che tutti sembriamo conoscere, è partita per la Siria, insieme a centinaia di inaspettati e conosciuti "foreign figthers", senza concederci il conforto di un perché, di una qualunque motivazione tra le tante che consentano di metterci il cuore in pace. Forse è tornata per compiere un attentato sanguinoso e morire.
Haner ha un nome, che ricorda altre donne e altre guerre antichissime ma uguali alle nostre, e dunque ha un identità, attorno a lei, padre, madre, innamorato e amica sono solo sigle, funzioni narrative che si interrogano, ovvero sono interrogate da ciò che ci circonda, senza trovare risposte. Tra loro la drammaturga traghetta le sue domande su una scena che non ha più deus ex machina che ne liberino e risolvano le contraddizioni.
Sono domande essenziali e in un certo senso definitive (per questo forse fatichiamo a porgerle) quelle che circolano e che riguardano la radice e il senso della nostra libertà, e della conseguente verità dei nostri atti, una libertà superficialmente declinata in democrazia oppure nel senso di appartenenza ad un occidente che ha assunto quella libertà a suo paradigma, tra mille infingimenti e mille tradimenti.
Su tutto la guerra, come evento in cui le contraddizioni dell'umanità da sempre esplodono ma non si risolvono mai, tra rivendicazioni e giustizie sommarie, mentre la morte pare incaricarsi di dare a tutto quanto e a noi stessi il senso che altrimenti non sembriamo trovare.
Una drammaturgia importante, ricca e sapiente nella scrittura e frutto di riflessione profonda e anche di meticciamenti in giro per l'Europa delle residenze teatrali, prima di una trilogia che appunto sulla libertà vuole indagare.
La regia riesce a creare il giusto contesto, governando personaggi, funzioni sceniche e lo stesso drammaturgo in scena in una scenografia semplice, tra giochi di luci e movimenti che ben evidenziano i passaggi del testo e le contraddizioni che lo stesso sviluppa, tra i protagonisti e tra i protagonisti e il pubblico.
Bravi i giovani interpreti, nell'uso della voce e nel governo del corpo, e brava la stessa Francesca Garolla nel ruolo di sé stessa.
Una produzione di Teatro I di Milano con numerosi e giusti sostegni, per la regia e la progettazione scenica di Renzo Martinelli. Con Viola Graziosi, Paolo Lorimer, Maria Caggianelli Villani, Maziar Firouzi, Francesca Osso e Francesca Garolla. Luci di Mattia De Pace, suono di Giuseppe Ielasi, disegno sonoro di Fabio Cinicola. Assistente alla regia Michele Ciardulli.
Uno spettacolo, cui auguriamo le ulteriori e numerose repliche che merita, vista al Piccolo Teatro di Milano Teatro Studio Melato, il 18 ottobre ultima replica dal 9. Molti e certamente guadagnati gli applausi.

Foto Luca Del Pia