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In un tempo caratterizzato dalla ricerca confusa di forme espressive e comunicative alternative o integrative al palcoscenico, sembriamo esserci dimenicati della forma più tradizionale e anche efficace di teatro a distanza, il radio-dramma, in tempi non lontani molto diffuso, conosciuto e apprezzato anche dai drammaturghi. Rimarchevole e interessante dunque la scelta di Radio3 di proporre questa drammaturgia (mai andata in scena in Italia) di Hattie Naylor, drammaturga inglese che ha molto lavorato per BBC radio e che esprime per questo una sintassi assai coerente con lo specifico mezzo radiofonico, dentro e al di là della sua indubbia qualità scenica. Fatta questa breve ma opportuna premessa, Barbablù, andata in onda nel giorno che ricorda la violenza sulle donne, è come un coltello piantato nel profondo della sensibilità femminile ed anche in quella maschile, lontano da ogni evenienza sociologica o retoricamente celebrativa e, per questo, capace di riscattare quel non detto culturale per il quale la letteratura di “genere” rappresenterebbe una sorta di sotto-settore specialistico, di cui val la pena interessarsi ma in fondo senza prenderlo del tutto in considerazione. Ispirato

alla omonima favola di Perrault, di cui smaschera la pedagogia più spicciola (la punizione della curiosità femminile) rintracciandone al contrario gli elementi di una modernità in un certo senso profondamente inattuale, la drammaturgia racconta di un uomo, un Barbablù da discoteca o locali di incontri, narcisista nel senso profondo della rappresentazione nascosta ma ancora prevalente, nella società borghese e patriarcale, che l'uomo fa di se stesso, e a cui l'uomo, sempre più psicologicamente e sociologicamente solo e indebolito, sembra quasi abbarbicarsi per sopravvivere.
Insieme a lui parla delle donne che incontra e consuma uccidendole, e per far questo utilizza il linguaggio forte della violenza, quello che precede spesso l'atto della violenza stessa, senza remissioni e senza indulgere a giustificazionismi, e attraverso questa brutalità svela il vuoto, psicologico e affettivo, che la circonda.
Soprattutto, come ci segnalano le parole di presentazione della psicoanalista Simona Argentieri, ci parla di quel sottile riflesso di sottomissione, celato nella punta dell'iceberg del femminicidio cui peraltro inevitabilmente rimanda, il più delle volte inconsapevole o non elaborato, che caratterizza ancora oggi i processi interiori di trasmissione dei ruoli, anche come detto attraverso le fiabe, in una società che sembra in movimento ma in cui le cose essenziali non cambiano ancora.
Un società in cui è ancora difficile parlare di genere e di conflitto di genere, senza rischiare la citata classificazione, come se fosse una cosa tra le altre, mentre è da sempre ciò che informa, attraverso la relazione o la contrapposizione tra uomo e donna, l'intera società, l'intera cultura occidentale, per non dire la nostra civiltà nel suo complesso.
Legami e complicità, quelle che emergono nel dipanarsi del monologo, che costruiscono dislivelli e diseguaglianze in cui siamo imprigionati, donne e uomini insieme trascinati, oltre e attraverso ruoli ancora profondamente introiettati e trasmessi (da madre a figlia e da padre in figlio ma anche, paradossalmente da madre a figlio e da padre a figlia), in una infelicità e solitudine diffusa e sempre più dolorosa.
Legami e complicità di cui il sesso e la violenza, che la trama linguistica efficacemente indaga e analizza, sono l'esempio perturbante attraverso il quale mostrare un substrato diffuso anche laddove violenza diretta non c'è. Basterà ricordare al riguardo le famose “Scene da un matrimonio” di Ingmar Bergman.
Con lui e prima di lui molti autori indagarono quel nesso tra società e genere, dai grandi nordici Ibsen e Strindberg ai nostri Rosso di San Secondo e Pirandello, spesso senza piena consapevolezza mentre tratteggiavano figure di donne rimaste nella memoria di tutte e di tutti.
Qui invece, e va segnalato credo, una donna racconta di un uomo e mette le sue parole in bocca ad un interlocutore trasformato in complice attivo di un processo che cerca remissione e rinnovamento, nel teatro e anche nella vita di ciascuno.
Alla fine sarà una donna a giustiziare questo Barbablù metropolitano, a sottolineare come anche le donne possono mettersi sullo stesso piano degli uomini con esiti anche sorprendenti se vogliamo, ma anche che questa soluzione non servirebbe comunque ad interrompere la catena dell'infelicità condivisa.
Un dramma intenso e forte, che offre però proprio in questo l'approdo dell'analisi e della distanza capace di smascherare e illuminare, di cui la traduzione di Monica Capuani (sappiamo che l'unico vincolo posto dall'autrice alla traduzione fu quello che fosse una donna a farlo) conserva intera l'efficacia comunicativa e significante.
Ottime l'interpretazione di Tommaso Ragno e la regia di Veronica Cruciani che costruisce lo spazio sonoro attraverso la centralità del microfono come transito narcisistico della narrazione.
A Rai Radio3, il 25 novembre, ma credo disponibile su Raiplay radio.