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Diplomato alla Scuola di recitazione del Teatro Stabile di Genova, dove Ivo Chiesa, noto per  saper riconoscere i talenti veri, gli affida a soli 25 anni un corso di recitazione, dal 2018 è Direttore Artistico del Teatro Nazionale di Torino ed è diventato un punto di riferimento della fase di rinnovamento che ha contraddistinto e contraddistingue questa Istituzione, capace di essere motore della crescita di quella comunità e dei suoi diversi, ma assai vivaci, molti teatri. Un Direttore Artistico un po' capocomico che ben amalgama le sue interessanti scelte, di messa in scena e di regia, con la sua primaria e mai abbandonata vocazione di attore. Se infatti è nella veste di direttore e regista che più di recente e più diffusamente è conosciuto, è soprattutto nella recitazione che può esercitare una vocazione profonda che ne fa, a mio parere, uno degli attori più talentuosi ed efficaci del teatro italiano. Un teatro che rimane il suo indiscutibile orizzonte anche nelle numerose e interessanti incursioni nel cinema. Da ultimo, nel pieno

delle restrizioni, ha saputo mantenere un forte contatto con il pubblico creando, attraverso docu-film a metà tra l'indagine e la didattica, un rinnovato ed apprezzato canale di comunicazione. Da tutto questo nasce la conversazione che segue.

MDL: Valerio, tu nasci biograficamente ma anche, in un certo senso, artisticamente, tra Genova e Torino, città entrambe molto teatrali. Poi la tua attività ti ha portato a toccare molti altri approdi in Italia. Mi puoi citare i tuoi maestri o almeno alcuni dei tuoi punti di riferimento artistici?

VB: Sicuramente tutto nasce alla scuola del Teatro di Genova dove i miei tre maestri, cioè Messeri Mesciulam e Sciaccaluga, sono stati la componente fondante di tutta la mia avventura teatrale. Diciamo che è stato l'imprinting più immediato e più forte. Ho avuto fortuna, perchè non sempre uno trova la scuola più adatta per sé, e invece, per quanto mi riguarda, l'insegnamento di questi tre mestri ha spianato la strada su cui mi sono potuto incamminare. In seguito mi sono andato un pò a cercare le cose che mi interessavano. Così ho stretto un sodalizio con Carlo Cecchi, molto lungo, tanto da diventare, in un certo senso, la mia tesi di laurea, umana ed artistica. Insomma questo sodalizio è stato tante e più cose, tutte quelle che si possono chiedere ad un maestro. Da ultimo uno dei riferimenti più importanti che ho incontrato è stato Geraldine Baron. Geraldine è stata per molti anni una insegnante dell'Actor Studio di New York ma spesso è venuta in Italia, molte volte proprio per lavorare con me. Poi ho anche molti maestri immaginari, che non ho mai incontrato ma dai quali mi sembra di aver imparato delle lezioni fondamentali. Primo fra tutti Charlie Chaplin.

MDL: Tu nasci attore ma subito prende corpo e piede una intensa attività di regista, l'una e l'altra talora sovrapposte quasi in un capocomicato senza compagnia di giro. Come si coordinano ed amalgamano nel tempo questi due ruoli?

VB: E' stato tutto molto naturale, nel senso che in me non è partito da subito un grande interesse per la regia come arte, cosa che peraltro neanche adesso credo di avere. Invece fin da subito ero molto interessato all'insegnamento, in particolare a quel tema che è un po' più complesso e scientifico di quanto siamo portati a credere, cioè la recitazione. Io ho cominciato ad insegnare già all'età di 25 anni alla Scuola del Teatro Stabile di Genova, grazie alla generosità e al coraggio di Ivo Chiesa, e mi posi da subito il problema di come la regia, nelle messe in scena che organizzavamo durante i corsi, dovesse essere al servizio della recitazione e non viceversa. Da lì si è sviluppato un modo di dirigere gli attori e di mettere in scena gli spettacoli che tenesse conto principalmente di come un regista debba guidare gli attori, non verso la regia però, ma piuttosto verso il punto del loro massimo splendore espressivo. Questo per un po' è stato solo un percorso didattico poi, con una certa naturalezza peraltro, è diventato anche un mestiere, un mestiere in più che io potevo fare oltre all'attore. Adesso è predominante e anche più apprezzato, ma proprio a ragione del mio rapporto esclusivo con il lavoro degli attori, che deve essere sì al servizio del testo o del racconto, ma sempre in primo piano, mai in secondo. Che poi questo percorso abbia coinciso e ancora coinciderà, e per quanto tempo, con questa sorta di capocomicato, di cui tu mi dici, è vero e giusto ma anche, in qualche modo, naturale poiché il mio più lungo percorso di formazione è avvenuto proprio sotto la guida di Carlo Cecchi, il quale è un rappresentante quasi tradizionale della scuola dei registi capocomici, venendo dal mondo di Eduardo. Tutte le volte infatti che vediamo una grande eccellenza nel teatro italiano non è raro che sia rappresentata da un capocomico.e di questo ci sono molti esempi, da Eduardo e Carlo Cecchi appunto, fino, tra gli altri, a Toni Servillo. Tutto questo è parte della tradizione italiana, più dello stesso Teatro di Regia, che è più recente e che a quella tradizione si è in qualche modo sostituito.

Foto Daniela Foresto

MDL: Scorrendo l'ormai lungo elenco degli spettacoli da te interpretati e/o diretti, sembrano prevalere testi di drammaturgia contemporanea, spesso stranieri e di area anglosassone, con incursioni man mano più numerose tra i classici, da Shakespeare a Alfieri, da Goldoni allo stesso Pirandello che un classico ormai lo è. C'è uno sguardo drammaturgico comune e coerente nell'approccio agli uni e agli altri?

VB: Ovviamente sì. La mia carriera è infatti partita con un quasi esclusivo interesse per i testi contemporanei, cosa che è caratteristica dei giovani quale allora ero. Una drammaturgia che aveva come suo punto di riferimento più luminoso Harold Pinter, e da lì tutta la scuola anglosassone. Ciò fino all'incontro con la drammaturgia norvegese di Jon Fosse, ma intercettando anche molti testi italiani, da Scimone alla Ginzburg, a Testori. È stato un periodo molto importante per la mia vita artistica che poi ho tradito nell'incontro con i Classici, poiché ho trovato nei classici spesso maggiore modernità rispetto ai testi contemporanei, molti dei quali avevano il limite di scadere molto presto, cioè di diventare, dopo qualche anno, già vecchi. In molti casi erano una sorta di esperimenti letterari, mentre i classici che avevano resistito al tempo in quel modo continuavano ad offrirmi occasioni per realizzare quella che per me è in fondo la sintesi del teatro, cioè una strana e malinconica festa dell'Umanità. I classici infatti avevano ancora fiducia nell'Umanità, mentre i testi contemporanei, tutti, sono nati nel dopoguerra e il dopoguerra ha inagurato il tempo della sfiducia, della sfiducia dell'uomo nella parola e nella società. Al contrario la drammaturgia precedente conservava una grande fiducia nell'una e nell'altra e per questo il teatro poteva essere una festa anche quando si rappresentavano delle tragedie. La sfiducia di Pinter nella lingua stessa, che serve per mentire, la sfiducia nella trama, dunque la sfiducia nel teatro stesso, ha contraddistinto tutta la drammaturgia contemporanea. Dunque c'è bisogno della giovinezza ribelle per apprezzarla, ma ad un certo punto ho pensato che l'atto di ribellione più sensato che potessi fare era dare una nuova chance di amore e di tenerezza nei confronti dell'umanità, e i classici me lo permettono. D'altra parte la mia lunga frequentazione dei testi contemporanei è stata una grande scuola di ritmo, è stata una scuola di montaggio, una grande scuola di non detto, e tutto questo si ritrova poi tutto nei lavori di riadattamento dei testi classici. Sono lavori che fanno a volte arrabbiare molti tuoi colleghi, che vi leggono poco rispetto della classicità, una sorta di tradimento della purezza filologica o, viceversa, un tradimento dell'avanguardia in quanto non abbastanza avanzati secondo loro. Io percorro una linea mediana che tende ad accontentare gran parte del pubblico ma che più difficilmente riscuote una unanimità di consenso da parte della critica, la quale tende invece a percepire quando un percorso è di ricerca o più tradizionale. Io a questo riguardo sto in una sorta di terra di nessuno, nella quale peraltro mi sento a mio agio.

MDL: Del resto come diceva Sanguineti che è stato anche un grande uomo di teatro, e  critico teatrale, e che cito spesso poiché, ahimè, spesso dimenticato, tradurre è già tradire, anche la stessa traduzione a calco è un tradimento, quindi dobbiamo sapere che ogni testo verrà necessariamente tradito.

VB: è vero. Io infatti non posso fare altrimenti, devo sempre un po' tradire perché in fondo il mio è un lavoro egoistico. Parliamo ad esempio del Pasolini, io ho tagliato la scena filosofica, ma per la ragione elementare che non la capivo. Poi naturalmente me la spiegavano, ma io continuavo a non capirla e non posso mettere in scena ciò che non capisco. C'è una parte di me che capisce la vita in quanto l'ha vissuta e la vede negli altri, di questo io posso parlare. Come ad esempio quando mi è capitato, rappresentando una tragedia greca, di togliere il coro. Mi è stato detto “il coro è bellissimo”. È vero, è bellissimo, ma non lo capisco, non capisco cos'è e cosa fa. In proposito andiamo un attimo a Courbet, pittore francese cui fu chiesto di dipingere degli angeli in una chiesa. Lui rispose “volentieri, appena ne vedo uno, vengo e lo dipingo”. Io sono un po' così. Quindi sono portato a tradire l'autore se questo autore vede qualcosa che io non vedo o viceversa. Ad esempio in questo mio ultimo Pirandello forse ho visto qualcosa che Pirandello non vedeva.

MDL: a proposito di Pirandello, ne vediamo ogni anno versioni nuove e anche riprese su tutti i palcoscenici italiani, talora a discapito di altri autori del periodo, da Bontempelli a Rosso di San Secondo, che Pirandello stesso aveva invece sostenuto. Secondo te, senza voler essere questa una domanda provocatoria, si tratta di una esigenza estetica sentita dagli artisti o piuttosto di una politica di basso rischio degli Stabili?

VB: Tutte e due le cose, secondo me. Bisogna riconoscerlo e far la pace con questa ambiguità. Da una parte c'è dunque la scelta di non rischiare, e di questi tempi a mio modo di vedere è una scelta saggia, se, ad esempio, a Pirandello vengono accompagnate scelte anche diverse e coraggiose. In fondo l'unico vero rischio è quello che non venga gente a vederli questi spettacoli, altro rischio non c'è, se non che quello che facciamo non venga capito e apprezzato. Ma comunque un teatro stabile deve fare anche queste scelte, controbilanciandole con quelle che portano molta gente a teatro. Il mio scopo è proprio quello di avere i teatri pieni di gente. Ovviamente ho due modi per riuscire in ciò, uno è quello di fare al meglio il mio lavoro e sperare che venga apprezzato. L'altro è quello di prendere  in giro il pubblico e allora chiamare la star facile di turno, elaborare delle gags elementari, pompare le rappresentazioni con degli effetti stupefacenti, anche così posso avere successo. Io cerco di assolvere la mia missione di riempire il teatro cercando di rimanere il più possibile onesto e tormentato come artista. Nel caso specifico di Pirandello, ma anche di Goldoni e di Shakespeare, essi sono un po' garanzie come delle star, e la gente viene. Quindi se nella politica di un teatro ci sono anche proposte di altro tipo abbiamo per così dire la coscienza a posto. Io peraltro rimango convinto che il pubblico sia il nostro vero padrone, in questo sono un po' all'antica. Per me il pubblico è sempre importante. Io sento spesso dire dal pubblico o di parte di esso: “ma basta con questo Pirandello, basta con Goldoni eccetera”. Però poi perchè se li propongo loro vengono e se invece propongo, che so, Jon Fosse non vengono? Allora io devo sempre cercare di trovare un modo per piano piano avvicinarci. Sai perchè ho fatto Romeo e Giulietta?  Avevo sempre pensato che mai avrei fatto Shakespeare e men che meno questa sua tragedia. Mi sembrava infatti il canone del canone, come direbbe Harold Bloom. L'ho fatto perchè mi sono trovato a Genova, al Teatro della Tosse, a portare in scena uno spettacolo che si intitolava “Sonno” di Jon Fosse, che tra l'altro ha vinto un premio della critica, e avevamo sessanta spettatori in sala. Allora mi sono detto, basta adesso, facciamo Romeo e Giulietta. È stato un cambiamento forte della mia storia di artista, di cui sono sinceramente fiero. L'importante è fare Pirandello come fai Jon Fosse. Allora hai trovato la quadra.

MDL: oltre che attore di teatro tu sei stato numerose volte attore cinematografico e anche televisivo. Cosa rende diverse ovvero somiglianti queste due modalità ed esperienze?

VB: Il teatro è un arte che si manifesta attraverso tutto il corpo, con il quale puoi sviluppare tutto un lavoro di percezione intorno a te, dello spazio, delle distanze, e in questo spazio ti immagini visto. Devi lavorare dunque con tutto il corpo, che devi rilassare e tendere, e del tuo corpo fanno parte anche la tua voce e gli occhi, la lentezza con cui tu scandisci il ritmo nello spazio. Tutto questo sta nella presenza, nel rapporto con il pubblico, in una sorta di corpo a corpo, specifico del teatro. Tu quando sei in scena senti una specie di onda  di corpi in comunicazione con te, devi essere autistico per non sentirli e devi essere concentrato per non esserne travolto. Tu senti comunque questo spazio gigantesco attorno a te, spazio in cui ti muovi assorbendo energie che poi trasmetti agli spettatori, con ogni tua fibra. Il cinema, invece, io credo sia sostanzialemnte l'arte del volto. Quindi se in fondo non c'è mai stato una grandissima sintonia tra me e il cinema, ciò è dovuto a questa prevalenza, in quanto io dal lato del volto sono complessato. Sul set è come ti facciano una foto e ti riprendano da vicino e io, così, mi vergogno, mentre non mi vergogno a stare tutto intero sul palcoscenico. Il perché non lo so.  Sono comunque due linguaggi, due spazi e contesti completamente diversi. Credo che l'arte della recitazione sia simile mentre l'arte del controllo delle tensioni del proprio corpo è invece diversissima. Così mi accorgo che quando faccio cinema sono in tensione, mentre appena entro in palcoscenico mi rilasso.

MDL: da oltre 2 anni sei Direttore Artistico del Teatro Nazionale di Torino e nel cartellone 2020/2021 hai messo in campo due testi di Pirandello, Così è (se vi pare) con la regia di Filippo Dini, e soprattutto Il Piacere dell'onestà che dirigi e interpreti, insieme ad altri interessanti come La Casa di Bernarda Alba. Oltre a quelli citati, dovevi recitare in The Spank di Hanif Kureishi, insieme a Filippo Dini che ne è anche il regista. Un testo inedito che sembra molto interessante. Perchè lo hai scelto e come lo hai affrontato?

VB: l'ho scelto senza sceglierlo in realtà, nel senso che io conoscevo di Kureishi solo i romanzi, che ho amato moltissimo. Poi la mia amica Monica Capuani, che ne ha fatto la traduzione, mi ha detto che aveva scritto anche una pieces per due personaggi e che voleva fare la prima mondiale a Torino, in quanto ama molto il nostro teatro. Ho detto subito di sì. Solo dopo ho letto il testo e per fortuna mi è paciuto. Mi sono nell'occasione un po' buttato nell'acconsentire ad un grande scrittore che desiderava esordire qui da noi in prima mondiale con la sua commedia, che è peraltro una bella commedia. È un dialogo tra due amici al bar in cui parlano delle loro crisi, la mezza età, le crisi coniugali, parlano di abbandoni, di figli. Una storia anche cupa, se vogliamo, ma scritta da uno straordinario narratore come Kureishi. Comunque ora lo spettacolo è sospeso ed è previsto vada in scena abbastanza presto, nel prossimo maggio.

MDL: A proposito della stagione in corso ho recentemente parlato di Stagione Eretica, apprezzando alcune iniziative da te promosse per non soffocare nelle restrizioni. Tra queste una serie di docu-film sugli spettacoli citati, programmati e poi interrotti. Vuoi approfondire il significato anche estetico di tali iniziative?

VB: Tutto nasce dal fatto di esserci trovati nel primo lockdown bloccati completamente. Così abbiamo scoperto come il nostro teatro fosse in fortissimo ritardo rispetto alla possibilità di filmare le proprie attività. Da tempo non si faceva più, con l'eccezione di quei filmati standard di presentazione che però nessuno guarda in quanto piuttosto noiosi, e per questo chiamati appunto filmati di archivio. Abbiamo contemporaneamente scoperto come, di fronte ad una sipario forzatamente chiuso, avremmo potuto e dovuto avere del materiale da mandare in televisione o sui social, per comunicare con la gente e in questo, come detto, ci siamo trovati in forte ritardo anche rispetto ad altri paesi. Per fortuna con Filippo Fonsatti, che è il nostro Direttore, ed è uno straordinario direttore, erede dei grandi gestori di teatro, abbiamo trovato una perfetta comunità di  intenti e con lui abbiamo deciso che era giusto investire i due capitali più importanti di cui disponiamo in questo momento. Il primo capitale è il denaro. Abbiamo un po' di denaro che non possiamo spendere per fare una produzione normale, però siamo un teatro pubblico e quel denaro 'dobbiamo' spenderlo per dare lavoro alle persone, attori, tecnici e quant'altro. Il secondo capitale è il tempo. Avevamo tempo, contrariamente al solito in cui devi inseguire il fare. Questo ci ha permesso di studiare dei modi nuovi, un approccio più pensato, più accurato, alla componente filmata dello spettacolo, finora un po' abbandonata. Inoltre abbiamo pensato che per comunicare con i nostri spettatori, più che far vedere la commedia, cosa che ad alcuni poteva interessare ad altri meno, fosse più efficace fare un documentario, cioè un po' di dietro le quinte, un po' di interviste, qualche brano dello spettacolo. Abbiamo dunque coinvolto, questa estate, anche tre cineasti veri, Irene Dionisio, Michele Di Mauro e Dario Aita, per fare delle messe in scene teatrali in forma di cinema, Blackbird, la Ginzburg, Molly Sweeney. In sostanza abbiamo provato ad usare questo lungo periodo di inattività lontani dal palcoscenico per fare quello che io auspicavo da tempo, cioè raccontare l'incontro di un attore di teatro con la macchina da presa. Questo incontro fa cambiare qualcosa nella recitazione, nella percezione degli spazi, ma è un ottimo modo di sperimentare, secondo me, il nostro mestiere nel campo che, come detto, contraddistingue il mio interesse principale, cioè la recitazione. Tutto questo lavoro ha avuto un notevole successo, con centinaia, se non migliaia di persone interessate, un risultato che, spiace un po' dirlo, dobbiamo anche alla Pandemia. Questo cambio di passo nel modo di filmarci, di fare il back stage, non ci sarebbe stato se non ci fosse stato questo bisogno di aggiornarci. Ed è diventato un interessante laboratorio di lavoro che dura ormai da un anno, poiché è ormai da aprile che sforniamo un docu-film dietro l'altro.