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Quando questa sua ultima pièce esordì in quel di Mosca nel 1904, al Teatro dell'Arte  con la regia di Stanislavskij  e Dancenko, e l'interpretazione della moglie Olga Knipper, nel ruolo di Ljuba, si dice che Anton Cechov ormai prossimo alla morte e che, come non tutti sanno, assecondava la sua vocazione drammaturgica anche con l'attività di critico teatrale con lo pseudonimo Antosha Ceckonte, notasse il prevalere degli aspetti tragici della sua narrazione, che era invece arricchita anche di tonalità da commedia, aspetti peraltro per così dire custoditi negli elementi più biografici che conteneva. Un racconto scenico divenuto in questo e per questo immortale, capace cioè di segnare non solo una epoca di passaggio estetico e storico-sociale, ma anche esistenziale in cui proprio quegli elementi più spiccatamente biografici, del suo passato e anche del suo futuro, acquistavano una luce ed una significanza del tutto particolare ed universale. La storia è nota, il tramonto di una famiglia che è il tramonto di una classe, la perdita come stigma fondativo dell'esistenza, in cui tutto scorre, sfugge e, scivolando verso la morte come dentro un lago gelido, si perde. Ma non per sempre, la nostalgia, e la malinconia che sempre l'accompagna, se ne

appropriano e la alimentano senza sosta. Un appezzamento di terreno, ricco e fecondo della nostra infanzia, amareni che una traduzione imperfetta ma straordinariamente efficace farà per sempre diventare ciliegi, che scompare trascinando con sé le nostre radici.
Alessandro Serra, nuova stella della regia italiana dopo il grande successo del suo Macbettu, affronta questa narrazione che sembra immobile nel ruotare su se stessa e ne asseconda i numerosi gorghi di memoria e di desiderio che in essa si formano, riconducendoli però ad una unità che quasi precede la coscienza, in quello stato imperfetto e inevitabilmente trasfigurato dal ricordo che è la nostra infanzia. Tutti ritornano infatti e si ritrovano “in una stanza speciale, chiamata la stanza dei bambini”.
È un lavoro profondo di interpretazione, decifrazione e riscrittura che trasforma quelle lontananze in un luogo che ci è vicino perchè costruito su sentimenti e umane essenzialità che ci appartengono e che quelle vicende hanno incorporato per sempre.
Un lavoro di drammaturgia sul testo, e sul contesto del suo transitare in scena, incisivo ed essenziale che utilizza con efficacia molti linguaggi e molte sintassi, dalla danza, che è una sorta di invito ad entrare nel gioco, alle ombre del teatro di figura, che fanno oscillare dalla vita alla morte, e viceversa, Ljuba e il suo bambino, un ritrovarsi e un perdersi per poi ritrovarsi per sempre.
Spesso accade, però, che tali linguaggi e sintassi diverse appaiano assemblate e giustapposte l'una all'altra senza amalgama, al contrario qui contribuiscono invece a creare e consolidare una narrazione coerente con il testo ed il suo spirito, facendo la sua parola di allora, la nostra parola di oggi.
Sceglie, forse anche per questo, una scenografia semplice che sfronda consapevolmente molte degli elementi naturalistici, che spesso hanno prevalso a scapito della parola drammaturgica, per sottolinearne le componenti più simboliche, anche quelle visive o sonore.
Uno spettacolo interessante e ben interpretato, moderno nella sua sintassi e così sospeso tra passato e futuro, come in fondo la vita.
Drammaturgia, regia, scene, luci, costumi di Alessandro Serra, con Arianna Aloi, Andrea Bartolomeo, Marta Cortellazzo Wiel, Massimiliano Donato, Chiara Michelini, Felice Montervino, Paolo Musio, Massimiliano Poli, Miriam Russo, Marco Sgrosso, Valentina Sperlì, Bruno Stori.
Una co-produzione COMPAGNIA UMBERTO ORSINI, ACCADEMIA PERDUTA ROMAGNA TEATRI, TEATRO STABILE DEL VENETO, TPE – TEATRO PIEMONTE EUROPA in collaborazione con COMPAGNIA TEATROPERSONA, TRIENNALE TEATRO DELL’ARTE DI MILANO, ospite del Teatro Nazionale di Genova al teatro Ivo Chiesa dal 27 al 30 maggio.