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“Padre d’amore, padre di fango”, di e con Cinzia Pietribiasi, è uno spettacolo prezioso, un efficace congegno teatrale che, in qualche modo, riesce a collocarsi in modo nuovo e interessante nel solco fecondo della tradizione del teatro di narrazione. Lo si è visto a Noto, in Sicilia, il 3 settembre, nel teatro Comunale “Tina Di Lorenzo”, nel contesto del festival Codex. Il soggetto della narrazione è semplice: il dispiegarsi del rapporto difficile di una bambina con un padre eroinomane negli anni ottanta. Lo spettacolo però non è semplice, o lo è solo apparentemente. Si apre lungo tre diverse direttrici di senso che s’intrecciano dall’inizio alla fine: l’interrogarsi sul rapporto d’amore verso il padre in senso assoluto, il padre, buono o cattivo che sia, ma nella sua significatività insostituibile e ancestrale; quindi l’espandersi delle tossicodipendenze alla fine del novecento e il disfacimento della figura/istituzione paterna (nel contesto culturale e socio-politico in cui questa trasformazione si è data); infine la ricerca – consapevole - di una

forma nuova ed efficace di narrazione che  aderisca meglio alle caratteristiche della contemporaneità e ne indaghi le radici. La relazione fra padri e figli (soprattutto figlie) è stata sempre complicata, difficile da indagare e definire: evidentemente una cultura maschilista come la nostra ha identificato, per millenni, nel ruolo del maschio il principio di autorità che sovrintende alla crescita dei piccoli e allo sviluppo della società. Autorità e d’altro canto protezione per chi in quella autorità si rifugia. Non facciamo qui psicologia spicciola né ci improvvisiamo antropologi, ma si tratta dell’esperienza di formazione primaria prevista dalla cultura occidentale insieme con quella legata alle significazioni dell’amore materno. Ma, fortunatamente, su questo versante dallo spettacolo non viene molto più che l’interrogazione centrale (che cosa vuol dire amare un padre?), ma nessuna risposta e forse non si sarebbe potuto fare diversamente. Nello spettacolo però questa domanda si incide nel contesto storico della fine degli anni ottanta, nel contesto spazio-temporale di un piccolo paesino (Schio) della provincia veneta, nel cronotopo del Nord-Est che cominciava a destarsi dalla guerra fredda e a diventare quel mondo di capitalismo duro (per quanto familiare) e politicamente esigente che conosciamo oggi. Questa domanda si incide nella storia - colta per squarci nella sua più profonda verità e quindi profondamente “tipica” - di una bambina di dieci anni (Sara) e del suo rapporto complicato col padre Sergio, operaio, trentenne, idealista e totalmente eroinomane. Operaio, giovane e idealista in un momento storico in cui la rivoluzione giovanile, che nel mondo era iniziata alla fine degli anni sessanta, si spegneva insieme con il dilagare delle tossicodipendenze, ovviamente più effetto che causa di un intero mondo che cambiava.
Ma l’aspetto più interessante di questo lavoro è la costruzione dell’azione teatrale: si tratta del tentativo di comunicare con il pubblico non (o non soltanto) attirandolo in un percorso narrativo lineare, ma coinvolgendolo nella creazione di una mappa concettuale e multimediale che serva a orientarsi nel magma emotivo e culturale di un momento di crisi e rinascita. Amare il padre in modo assoluto, come può fare una bambina e poi, delusione dopo delusione, cominciare a vederlo ed amarlo con occhi smagati e adulti, provare a capire non tanto l’importanza di un determinato momento storico (se si scrive “1989” su un motore di ricerca, l’impressione è straordinaria: sembra che ogni fibra del mondo si sia data appuntamento in quell’anno per rinnovarsi) quanto la profondità con cui certi cambiamenti hanno inciso la nostra vita, la vita concreta delle persone. E cosa si usa per realizzare questa mappa concettuale? Certo non solo il racconto, non solo le parole e le persone (…il fraseggio asciutto e ritmato che ricorda la grande Agota Kristof, l’assenza di retorica, le domande senza risposte, i comportamenti crudeli e assurdi di un tossico, l’assenza della madre, la nonna Teresa macellaia e la bisnonna Rina operaia del tessile), non soltanto i suoni e le musiche (anche se l’impatto emotivo e “generazionale” di un pezzo dei Talking Heads vale l’intero spettacolo), ma ecco – per il tramite di un pc, di una cam, di un grande schermo - una carta geografica, i pupazzetti dei dinosauri e delle paperelle con cui si giocava da bambini, ecco il mangiadischi e ancora i fogli di quaderno coi messaggi innamorati per papà, ecco i poster, il tennis e il grande amore per Agassi. La memoria delle cose trasuda umanità a saperla ascoltare. Ci sarebbero stati anche gli odori (l’erba tagliata di un campetto di calcio, la naftalina e il talco di appartamento abbandonato, la carne fresca e le ossa tagliate, i piatti non lavati, il vino rimasto, la carta da parati impregnata di odori stantii) ma nella versione dello spettacolo vista a Noto non è stato possibile organizzare l’inserimento di questo elemento. Uno spettacolo da non perdere.

Foto Marika Tiné