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Lo iudicio de la fine del mondo è una sacra rappresentazione in un volgare non esente dall’influsso del vernacolo piemontese che, allo stato attuale delle conoscenze, ci è tramandata da un unico testimone conservato presso la Biblioteca Vaticana con la segnatura R. I. IV. 2168. Si tratta di un libricino composto di 44 cc., privo del frontespizio e forse dell’ultima carta, provvisto di una numerazione di mano seicentesca. In precedenza parte di una miscellanea formata da 7 opuscoli, la sua attuale legatura, di cartone rivestito in cuoio, reca lo stemma di Gregorio XVI (1831-1846). In base a quanto si evince dal colophon, esso fu stampato nel 1510 a Mondovì: «Impressum in Monteregalii in Plano Vallis per Vincentium Berruerium sub anno Domini Millesimo . ccccc . x die xij aprilis». La filigrana, una mano aperta sormontata da una stella e con una grande alfa sotto il palmo, non registrata dal Briquet, potrebbe denunciare una confezione locale considerato che nel 1484 proprio a

Mondovì Girardino Pensa aveva ottenuto, per la propria cartiera, dal Duca di Savoia il diritto all’uso esclusivo di un ‘emblema’ la cui descrizione lo fa supporre assai simile a quello che compare nel nostro volumetto: «signi manus erecte cum stella»1.
    Quanto a Vincenzo Berruerio sappiamo che nel 1507 aveva acquistato da Giacomo de’ Circhi la suppellettile tipografica dei fratelli Le Signerre, giunti da Milano a Saluzzo su invito del marchese: stabilitosi a Piano della Valle, iniziò così con i figli Giuseppe e Gerolamo la sua attività di stampatore in territorio Monregalese dove resterà fino al 1521, anno del trasferimento della tipografia a Savona. Della sua produzione sono noti a oggi 21 titoli, in prevalenza illustrati2.
    Difficile dire se questo esemplare a stampa riproduca un testo che già circolava in forma manoscritta oppure esso sia stato composto immediatamente a ridosso di tale pubblicazione. Certo è invece che le caratteristiche stilistiche non lasciano dubbi sulla sua natura autenticamente ‘teatrale’, ovvero sul suo essere stato ideato e redatto in vista di una messinscena, non è dato sapere se poi posta o meno in atto né, nel primo caso, quante volte, dove e in quali circostanze. A prescindere da ciò, le 84 xilografie da cui è corredato in qualche modo suppliscono alla pratica performativa, raffigurando esse i personaggi chiamati di volta in volta a pronunciare la battuta, quasi a voler rendere in maniera perspicua al lettore la vivacità della pratica performativa.
    Dopo un breve preambolo introduttivo, inteso a fornire essenziali – e reboanti – ragguagli dottrinali («queste sono le auctoritate de li sacri doctori de lo advento de Christo benedecto...»3), l’opera ha inizio con il monito del predicatore all’indirizzo degli astanti – apostrofati con l’epiteto di «peccatori» – l’uno e gli altri ritratti in una illustrazione a piena pagina che ci mostra il primo sul pulpito in atto allocutorio, i secondi, chi assiso, chi in piedi, intenti ad ascoltarlo: «o peccatori scelerati e pieni de tristeza, / adesso è tempo de razone far e pagamento...». Monito che si conclude, come è d’uso laddove ci si rivolga a un pubblico concretamente presente, con l’esortazione a fare silenzio: «silete, silete, silentium habete».
    A seguire si avvicendano vari personaggi, ciascuno dei quali è connotato da una ‘cifra’ linguistica consona al suo ruolo e alla sua figura. Così gli attanti celesti assumono un tono grave e solenne, per i quali valga l’esempio del profeta Enoch, il primo a ‘entrare in scena’: «peccatori avisatine bene e fati penitenza / perché se aprosima il giorno de la sententia...». Mentre a quelli infernali più si acconcia un linguaggio ‘basso’ e popolaresco di cui dà buona prova l’Anticristo che risponde a questi e ad Elia, sopraggiunto a corroborarne gli argomenti4, facendosene scherno:

io te insegnerò bene, o grande parladore,
con tuta la toa granda barbitoncella,
e anchora tu chi porti le corne longe,
e la barba toa cossì revoglonata...5.

    Come vada a finire è fin troppo noto: i reprobi saranno condannati a subire in eterno le pene infernali e i giusti potranno, sempre in eterno, godere della gloria celeste. Il tutto sintetizzato da una parte nelle parole di Lucifero ai suoi accoliti:

tormentatigli a la pezo che orriti fare
a fin che giamay possiati avere riposso
cridando tormentando fin a la morte
e non li lassate gia may ripossare.

Dall’altra in quelle di Cristo che così conforta le anime buone:

unda stariti sempre alegri
goardando la mia magestade
canteriti danceriti li canti suavi
la gloria vederiti e tuti li sancti beati.

    A sugellare l’esito scontato dell’apocalissi futura e ineludibile compare una seconda volta il predicatore che esorta la ‘platea’ a tenere una condotta rispettosa della legge di Dio e a pentirsi sinceramente dei propri peccati per ottenere la grazia divina. L’‘attacco’ è fuor di dubbio quello di chi abbia di fronte degli spettatori da cui attendersi delle reazioni rinviando a qualcosa di esperito col senso della vista («aveti veduto», «guarda»), dunque di reale:

o signori mei de questo mondo
avissative um poco in questo ponto
aveti veduto como li peccatori
a la fin sono posti in grandi terrori
guarda un pocho che spaventamenti
è stato quello de questa iornata...

Ovviamente può trattarsi di una vista ‘interiore’, dunque metaforica, oppure riferirsi alle numerose immagini del volume, che comunque, a ogni buon conto, possiede in effetti ogni requisito per essere ritenuto un copione: la netta scansione delle parti con le rubriche che indicano l’attante chiamato a intervenire, lo stile dialogico, una lingua che appartiene all’espressione parlata e all’uso e quotidiano. A ciò si aggiunga la presenza di manunculae sul margine della scrittura a indicare i passaggi particolarmente significativi, che potrebbero essere state inserite per segnalare i brani a cui era necessario conferire maggiore enfasi al momento della recitazione, infine la stessa disposizione del testo, scandito in frasi incolonnate come se fossero versi pur essendo esso in prosa6, il che da un lato lo rende senz’altro di agevole e cursoria lettura, dall’altro supplisce in maniera cogente al ruolo della punteggiatura, ossia dividere il periodo segnalando le pause significative sotto il profilo semantico o meramente grammaticale.
    La peculiarità tuttavia più singolare che emerge dall’analisi di questo scritto, e del fascicolo che lo contiene, consiste in alcune analogie sussistenti con un affresco presente sulla parete destra della navata di San Fiorenzo di Bastia7, a pochi chilometri da Mondovì, la stessa cittadina in cui Lo iudicio de la fine del mondo fu dato alle stampe. Il soggetto è lo stesso: un grandioso giudizio universale in cui compaiono le opere di misericordia sovrastate dalla Gerusalemme celeste a fiancheggiare una ‘cavalcata dei vizi’ su cui domina un inferno popolato da spaventosi demoni. La decorazione muraria è datata con sicurezza al 1466, contemplando essa un’iscrizione che attesta l’anno in cui fu terminata, dichiarando nel contempo la committenza almeno di una delle ‘sezioni’ che la compongono, la Vita di sant’Antonio Abate8: «MCCCCLXVJ die XXIIIJ mensis junij | hoc opus fecit fieri facius turrinus»9.
    Analogie che, a meno di non voler datare Lo iudicio a un cinquantennio prima della sua impressione, dobbiamo supporre siano frutto della visione dell’affresco da parte del suo autore, cosa non improbabile vista la stretta contiguità geografica, oppure addebitabili a una ‘fonte’ comune, magari di natura interdiscorsiva10. Comune a entrambi è il beffardo invito dei peccatori alla danza che ritroviamo a san Fiorenzo, vergato a grandi lettere in prossimità delle fauci spalancate dell’inferno («O infelices peccatores venite ad | choreas Tarararara»), così come  nel sermone in esordio della rappresentazione dove il predicatore cerca di intimorire i presenti prospettando loro la futura perdizione:

adesso he venuto el tempo de la ira de Christo
lo qualle alo inferno te volle condampnare
e non te valerà forza né possanza
te sarà bisogno di menar la danza.

Ma la danza presuppone una melodia e, in quanto infernale, non può che essere modulata da diavoli ‘musici’: nel dipinto un demonio nero e villoso che, con un tamburo sottobraccio, suona il flauto, nel testo un gruppo di demoni incoraggiati da Sattanas a dar di piglio ai loro strumenti, secondo tradizione a percussione e a fiato: «or doncha sonamo tamborni, sicute11 he caramelle».
    L’affinità tuttavia più dirimente è costituta dall’identità del dannato a cui, in virtù dell’estrema gravità del peccato commesso, l’ideatore del ciclo pittorico monregalese ha concesso il ‘privilegio’ di essere calpestato dal mostro incatenato al centro dello spazio ctonio: non, come ci si attenderebbe Giuda12, bensì un avvocato, come espressamente registra il cartiglio che lo affianca, «Avocator». Una categoria professionale nei confronti della quale mostra di avere una particolare predilezione anche il Lucifero de Lo iudicio che, in ragione di ciò, sollecita i propri accoliti di condurre innanzi sé quanti vi appartengono: «apportatime alcuno de quelli advochati / più cari me sono che mille de li altri». Un dato pressoché unico nel panorama escatologico medievale, plausibilmente da mettere in relazione con le malversazioni perpetrate, per il tramite di un’avvocatura loro asservita, dai potenti ai danni della povera gente, forse riconducibili in concreto a fatti occorsi in tempi recenti in quel territorio di cui si conservava ancora viva la memoria. Un Lucifero che peraltro mostra, nella xilografia che lo raffigura, una decisa somiglianza tanto nell’iconografia quanto nei dettagli col gigantesco demonio divoratore dell’affresco: simile è la postura, entrambi calpestano un dannato, ma soprattutto entrambi hanno le caviglie strette in ceppi di ferro legati da un’asta, tanto da farci ipotizzare che l’incisore della matrice proprio a esso si sia ispirato.