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Ritorniamo a teatro. Inevitabile iniziare così, con questa frase, forse banale. Non è il primo spettacolo, qualche visione ci allietati durante l’estate, ma ritornare a teatro, al chiuso, all’inizio di stagione, come ai “vecchi tempi”, sicuramente stimola emozioni diverse. Tornando a teatro ci aspettiamo spettacoli e testi che parlino della pandemia. Ogni momento storico caratterizza inevitabilmente le forme artistiche e le scritture sceniche, ma vorremmo vedere qualcosa che allontani queste paure, questi ricordi, le esperienze vissute, osservate, patite. Sappiamo bene che questo è molto difficile, soprattutto se le drammaturgie hanno visto la luce durante la reclusione pandemica, ma attendiamo fiduciosi un nuovo slancio scrittorio che possa allontanare il ricordo e guardare al futuro. Per questo motivo comincio a scrivere partendo dalla fine di uno spettacolo intenso, elegante, commovente, ben strutturato e di grande poesia, inizio a scrivere, cioè, da un’ultima scena che avremmo voluto eliminare, che ha smorzato l’intensità dell’intera scrittura e messinscena.  “HOSPES, -ĬTIS”, in scena presso lo storico teatro San Ferdinando di Napoli, inaugura la stagione del Teatro di Napoli-Teatro

Nazionale dal 12 al 17 ottobre. Lo spettacolo si conclude con l’immagine di due operatori sanitari che indossano le tute anti-Covid e che disinfettano il palcoscenico e le quattro pareti in plexiglass che delimitano e chiudono lo spazio scenico, isolando la platea dagli attori, attraverso una quarta parete quasi visibile.
L’ultima scena è superflua, “appiccicata” al resto, scollata da una struttura solida.
Incominciamo volutamente dall’unico elemento negativo di un intero spettacolo che non ha elementi negativi, ma è giusto sottolinearlo.
Autore il prolifico e giovane Fabio Pisano, regista il magico Davide Iodice: un connubio vincente che si avvale di attori giovani o di esperienza che seguono un ritmo serrato per raccontate una storia comune che parla di vita e di morte, argomento che ci accompagna da sempre e che è sempre stato analizzato dagli artisti di tutti i tempi, ma che durante la visione dello spettacolo ha solo sfiorato l’idea della pandemia che stiamo vivendo. Questo la dice lunga.
C’è un elemento in più: il tempo. In realtà il filo conduttore dell’intero spettacolo è proprio il tempo, osservato attraverso le sue variegate sfumature e forme, dall’attesa alla corsa contro il tempo, al momento in cui il tempo finisce o inizia.
Piccolo saggio sulla vita, questo spettacolo affronta la nostra fine senza rimpianti, attraverso una Morte in scena, interpretata dalla splendida Aida Talliente, finta infermiera vestita di nero per essere distinta dagli altri personaggi, ironica ma comprensiva, la quale appare come un burattinaio/danzatore che con un gesto della mano spinge gli uomini a compiere le loro prevedibili azioni, a tentennare, a dubitare, ad avere paure e ripensamenti.
Hospes, -ĭtis: lemma del vocabolario di latino. Nello spettacolo viene utilizzato come nome del ricovero, ospedale, luogo di fine vita in cui vengono accolti i malati terminali che si trovano in quella condizione per vari motivi. Hospes in latino significa in realtà ospite, ma anche estraneo. Bisognerebbe riflettere sull’ultimo significato.
 Il Direttore è interpretato da Orlando Cinque, perfetto per questo ruolo, non solo per l’imponenza fisica, ma anche per la voce calda, profonda, dolorosa; unico personaggio che riesce a vedere e a parlare con la Morte – anche se a tratti lo spettatore dubita che questo avvenga – a sua volta travolto dal dolore per la malattia della figlia.
L’intero spettacolo si “appoggia” sul concetto di sospensione: tutta la nostra vita è in sospeso tra la nascita e la morte. La sospensione scenica è evidenziata da un letto sospeso in alto, su cui attende la morte un personaggio che chiede l’eutanasia. La sospensione si percepisce all’interno delle quattro pareti in plexiglass che ci dividono da un mondo segreto che vive aspettando la morte: i malati terminali, appunto, estranei alla vita.
L’allestimento scenico utilizza e rielabora proiezioni video, effetti sonori gestiti dal vivo dalla stessa Talliente, immagini riprodotte, elementi che riempiono di profonda poesia gli animi e gli occhi degli spettatori. La scelta di utilizzare la voce in presa diretta, ovattata e soffocata dalle quattro pareti trasparenti, a volte amplificata in delay, a volte alterata, non infastidisce, bensì caratterizza e abbellisce le scene dal ritmo serrato che, invece, descrivono, in contrasto, la lentezza dell’attesa. Eleganti anche le scelte musicali, i video curati da Michelangelo Fornaro e le luci di Loïc Francosi Hamelin.
Intelligente la scelta di non utilizzare aste, microfoni e fili in scena, elementi presentati eccessivamente e ripetutamente all’interno degli spettacoli in scena negli ultimi anni.
Con un eccesso di attenzione, sottolineiamo anche la scelta dei nomi dei personaggi: Purpura, la donna con le stampelle che dichiara di voler entrare nella stanza “degli ultimi desideri” accompagnata dal medico che l’ha curata – non a caso questa stanza immaginaria è collocata in platea, fuori dalle quattro pareti di plexiglass, presente quindi nella mente di ogni malato o di ogni uomo, ma non reale - , vestita di un leggero abito color porpora;  i personaggi in sedia a rotelle appaiono grotteschi, clowneschi, deformati, come Minamata e il marito, con i volti colorati con le fattezze delle maschere orientali (il nome Minamata deriva da una sindrome da intossicazione da Mercurio e da un fatto di cronaca che riguarda la cittadina di Minamata e il relativo disastro ambientale che l’ha colpita); Schindler o Cloves che ricorda una sindrome genetica, così come Rohhad, o Parkinson, o la sindrome di Lemierre. Nomi apparentemente inventati, ma in realtà scelti e attributi con attenzione.
Il testo, in effetti, rivela una grandissima attenzione ad ogni singolo vocabolo, giocando su assonanze, metafore, anagrammi, attraverso momenti intensi che permettono al pubblico di memorizzare istintivamente alcune battute. Pensiamo, per esempio, alla scena in cui la Morte afferma di non voler provocare il male agli uomini, ma sottolinea che il suo compito è completare ciò che inevitabilmente è stato intaccato e deve concludersi. La Morte indossa delle ali nere, soprattutto nel momento in cui i malati stanno per liberarsi dalle sofferenze della vita e questo travestimento, sicuramente non originale, è portato in scena con maestria ed eleganza.
L’ultimo banchetto, in una data che indica la fine, la sospensione e quindi un passaggio, cioè la notte di Capodanno, ricorda alcuni momenti di “Angels in America”, nella versione italiana di Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani, ma anche il celebre banchetto di Macbeth o, addirittura, una vera e propria Ultima Cena leonardiana, così come il ripetuto movimento dell’inarcare la schiena indietro mentre la Morte intima la parola “sospiro”- l’ultimo o il primo respiro? - fa spalancare le bocche dei personaggi in una immagine che ricorda anche alcuni spettacoli firmati da Emma Dante. Il palcoscenico circondato da pareti trasparenti rimanda al ricordo di “Interiors” di Matthew Lenton, ma con intenti assolutamente diversi.
Fino ad ora non abbiamo citato nessun elemento che possa farci pensare al Covid, alla pandemia, alla reclusione forzata. Questi personaggi amano più la morte che la vita, affrontando la conclusione della loro esistenza con grande coraggio, affidando la mente a un «non ricordo» che è la chiave di passaggio.
Abbiamo, dunque, dimostrato che questo spettacolo non può e non deve agganciarsi alla contemporaneità, ma siamo convinti che riuscirà a narrare, ad emozionare e a far riflettere anche in futuro.

Foto di scena Marco Ghidelli, Ivan Nocera

HOSPES, -ĬTIS
Teatro San Ferdinando, 21-17 ottobre 2021
HOSPES,-ITIS (Premio Hystrio – scritture di scena 2019)
drammaturgia Fabio Pisano
regia Davide Iodice
con Angelica Bifano, Carolina Cametti, Antimo Casertano, Orlando Cinque, Daniel Dwerryhouse, Noemi Francesca, Damiano Rossi, Giulia Salvarani, Ilaria Scarano, Sebastiano Sicurezza, Aida Talliente, Emilio Vacca, Francesco Vitale
scene Tiziano Fario
costumi Daniela Salernitano
luci Loïc Francois Hamelin
video Michelangelo Fornaro
musica in scena Aida Talliente (loop station, giocattoli, strumenti non convenzionali), Ilaria Scarano (tastiera), Giulia Salvarani (violoncello), Daniel Dwerryhouse (clarinetto) training e studi sul movimento Chiara Alborino
direttore di scena Antonio Gatto
assistente ai costumi Ilaria Carannante
datore luci Francesco Adinolfi
macchinisti e attrezzisti Marco Di Napoli, Domenico Riso fonico Daniele Piscicelli
tecnico video Sebastiano Mazzillo
sarta Daniela Guida
foto di scena Marco Ghidelli, Ivan Nocera
produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale