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Immaginiamo di prendere un pupazzo di stoffa e di rivoltarlo come un vecchio cappotto, mettendo all'esterno quello che è l'interno e viceversa. Questo io credo è il sottosuolo di Dostoevskij visto e riletto attraverso lo sguardo mai banale, talora eterodosso se non eretico, del gruppo torinese e del suo drammaturgo Marco Isidori. Stavolta il nostro drammaturgo si lascia raggiungere e circondare dalla parola profonda della narrazione e sceglie di non traslarla in parola scenica, in rutilante costruzione a scatole cinesi da cui i suoi attori, numerosi, traevano quasi a sorte un improvviso significato per costruire un nuovo senso, coerente e complessivo. Sceglie dunque di farsene imprigionare e così di riarticolare quella trama di parole in stoffa robusta che il protagonista indossa ed insieme mostra, mentre compone lo spettacolo di sé davanti ad una sorta di manifesto (un bellissimo trionfo della morte di Daniela Dal Cin, mai abbastanza lodata per la sua arte) dell'umanità corrente, nel senso che va

molto di moda oggi e forse anche due secoli fa. Un mettere fuori ciò che non può o non vuole essere più celato di cui il bravissimo Paolo Oricco si fa protagonista, quasi ad estorcere al suo personaggio una confessione, un pentimento per i molti delitti commessi o forse solo immaginati. È come se dovesse (l'attore) mantenere comunque una distanza affinchè possa uscire dal suo nascondiglio quell'immagine di sé e di noi che preferiamo tenere nascosta.
La drammaturgia coglie dunque del grande romanziere russo un filo di continuità nascosto nella letteratura che ha l'esigenza di farsi spettacolo, così come dentro ciascuno di noi un magma più o meno incandescente preme in continuazione per farsi eruzione vera e propria.
Del resto che Dostoevskij, di cui tra l'altro ricorre il duecentesimo anniversario della nascita, sia riconosciuto come un anticipatore dell'inconscio ovvero un 'protoanalista' è a molti noto ed evidente.
Come scrive infatti lo stesso Isidori, a Dostoevskij va attribuito il merito di essere riuscito a “calibrare il suo occhio di artista in modo da penetrare al micron la misura dell'angoscia che ci spacca il petto allorquando comprendiamo che il punto della nostra posizione esistenziale ci viene fornito soltanto, unicamente, diabolicamente, dal “male” che siamo in grado di portare in dote ai nostri simili”.
Un grottesco beffardo dunque, nel senso pieno del termine e delle cavità che nasconde, che espone e si espone, coinvolgendoci inevitabilmente.
Una scrittura intensa per una messa in scena efficace, forse anomala rispetto al passato nel suo privilegiare il monologo, e molto ben recitata.
Da Fëdor Dostoevskij, adattamento drammaturgico di Marco Isidori, con Paolo Oricco, regia Marco Isidori, assistente alla regia Ottavia Della Porta, tecniche Sabina Abate, luci Fabio Bonfanti e Paolo Scaglia. Scenario Trionfo della Morte di Daniela Dal Cin. Produzione Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa.