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Al nome e all'opera di Renata Molinari è legato il più fecondo filone di riflessione intorno alla natura, al ruolo e alla funzione del dramaturg nel contesto teatrale italiano, compresi i suoi rapporti con la più ampia realtà europea. In questo filone affonda le sue radici uno dei testi italiani più importanti sull'argomento, quel “Il lavoro del dramaturg – Nel teatro dei testi con le ruote” scritto insieme al compianto Claudio Meldolesi. Ma come noto Renata Molinari non è stata solo una studiosa, e una docente che per molti anni ha insegnato alla Paolo Grassi di Milano, è stata anche e forse soprattutto un dramaturg sul vasto campo del teatro. A lei si debbono le drammaturgie di molti importanti spettacoli in Italia e in Europa. Basterà in proposito ricordare la lunga e feconda collaborazione con Thierry Salmon. Ha scritto anche numerosi testi per la scena, oltre a condurre laboratori e pubblicare vari saggi di teatro. Da ultimo, ritornata di recente a Bagnacavallo nella natia Romagna, ha fondato “La

Bottega dello sguardo” che ha il suo centro nella “Biblioteca Teatrale Molinari”. Questa oltre a custodire i suoi testi ha avviato e già realizzato la catalogazione di 3000 titoli. Da questa nuova postazione continua ad essere un punto di riferimento importante per la comunità teatrale e per questo l'abbiamo interpellata, e lei ha cortesemente accettato, per questa breve conversazione.

MDP Drammaturgo / Dramaturg, tu sei stata una delle prime ad affrontare questo nodo, tutto italiano, intorno ai modi di fare teatro. Sono passati molti anni ma l'intersecarsi di scrivere e/o predisporre la messa in scena sembra qui da noi ancora problematico. Perchè?

RM: Forse perché si fa ancora fatica a staccarsi dalla figura del regista come unico artefice dell'intervento sul testo. Un regista può avere dei consulenti letterari ma è più difficile che deleghi la composizione, l'intervento sul testo appunto. Questo è uno dei motivi per così dire culturali. Ovviamente ci sono anche dei motivi economici, che però sono soprattutto legati alla scarsa visibilità del lavoro del dramaturg. Infatti a mio avviso il lavoro del dramaturg, se fatto bene, non dovrebbe vedersi in quanto lavoro autonomo, ma dovrebbe al contrario fondersi tra attore, regista e testo o repertorio. Vedi la mano che tiene ma non necessariamente il soggetto autore. Da un lato, infatti, noi abbiamo molto il mito dell'autore, dell'autoralità, così che anche chi si avvicina o potrebbe avvicinarsi al lavoro del dramaturg fatica a combattere con il proprio desiderio di diventare autore. Dico questo soprattutto con riferimento ai giovani. Io ho a lungo condotto e poi coordinato i corsi di drammaturgia in Paolo Grassi. In quel contesto era molto evidente che la prima proposta che un allievo drammaturgo fa per sé è quella di autore. È molto difficile avere qualcuno che ti dice di voler fare un passo indietro rispetto al suo essere autore. Quindi ci sono due poli che si intrecciano e fanno resistenza. Questo è un primo problema. Un altro problema è anche la mancanza di repertorio, perché chiaramente sul repertorio il dramaturg può intervenire in maniera molto più dialogica e relazionata con altri colleghi e funzioni. Noi invece abbiamo molto questa esigenza di creare uno spettacolo che viene messo in scena in esclusiva, abbiamo molto questa idea dell'esclusiva. Questa preoccupazione invece non c'è negli altri paesi, forse perché appunto i teatri sono più stabili, più legati alle loro città. Nella  difficoltà che tu indicavi, dunque, ci sono delle ragioni sia di carattere di politica teatrale e di organizzazione della attività teatrale, sia culturali, legate da un lato alla dominanza della figura della regia critica, che ha avuto un ruolo straordinario e un po' ha fatto proprie le funzioni del dramaturg, dall'altro all'enfasi che noi abbiamo riguardo al soggetto creatore piuttosto che al processo creatore. Al riguardo il lavoro del dramaturg è un lavoro in cui la creatività non è la prima istanza. Questa può essere il risultato del suo agire, ma non è la sua prima istanza, in quanto il dramaturg lavora su chiamata di un altro. Se io lavoro con un regista che decide di mettere in scena un testo, devo innanzitutto sapere che cosa lui ne intende fare, cosa gli interessa mettere in luce di quel testo. La stessa cosa se lavoro con un attore, come può accadere. Però non sei in prima linea, sei un passo indietro e devi in primo luogo accogliere le istanze dell'altro, cercare di precisarle e di nutrirle e insieme di custodire il testo non piegandolo alle tue intenzioni creative. Dunque non ti poni come soggetto della creazione, ma come collante. Come un orecchio che ascolta e tenta di dare organicità all'insieme, ma non di creare una personale rilettura del testo. In questo caso diventi drammaturgo, diventi autore, non sei più un dramaturg. Il dramaturg infatti lavora innanzitutto su istanze che non sono in prima battuta le sue. Possono essere quelle del regista, dell'attore o anche quelle del teatro per cui lavori.

MDP È una questione veramente interessante e complessa e quello che tu dici mi fa venire in mente Edoardo Sanguineti, su cui come sai ho scritto una monografia, il quale proprio in relazione al dramaturg, che era figura che a lui stava molto a cuore, e in generale parlando della scrittura teatrale poneva l'accento su alcune questioni che riteneva fondamentali anche per il suo operare, nella misura in cui come tale, come dramaturg, si percepiva. Una era la committenza che ha a che fare con quello che tu hai appena sottolineato. <<Io>> mi diceva<<scrivo e ho scritto teatro quasi esclusivamente su committenza>>. L'altra riguarda la predisposizione del testo e delle parole per la scena in relazione all'attore che, sulla scena, le dovrà recitare, cioè al suo corpo, alla sua vocalità specifica e singolare. Finito tutto ciò però lui riteneva finito il suo lavoro che era affidato alla piena libertà e autonomia di chi poi lo metteva in scena, attore o regista che fosse. Da una parte dunque mi sembra ci sia una conferma di quanto tu hai detto, dall'altra invece che ci sia, in questo suo spossessarsi e quasi disinteressarsi dell'esito scenico, una profonda differenza.

RM In effetti è così. Io non opero alla stessa maniera poiché, nel caso di Sanguineti, c'è un autore che con grande sapienza teatrale compone su committenza, anche avendo come modello vivente e fine l'attore che lo reciterà, compone comunque un testo che può poi consegnare. Non sempre è così per il dramaturg vero e proprio per il quale non c'è un momento in cui hai finito consegnando il tuo lavoro, quel lavoro continui ad aggiustarlo sulla base di quello che accade man mano. È anche una questione di equilibrio tra dramaturg e regista o attore. Mi soffermo in particolare sulla dimensione dell'attore perché spesso, anche se storicamente il rapporto è tra dramaturg e regista o tra dramaturg e direttore di teatro nel contesto della predisposizione di una stagione o anche di un festival, io vedo che in Italia e nella mia esperienza sono stati spesso gli attori a chiedermi di fare il dramaturg con loro, quasi accettando di fare un passo indietro, ovvero un passo avanti di maggiore consapevolezza, rispetto alla sola dimensione dell'attore/autore. Esiste questa dimensione dell'attore/autore, molto diffusa in Italia, che però a un certo punto sente un maggior bisogno di avere un incontro con un dramaturg che organizzi la sua produzione scenica e che nutra il suo immaginario. Questo è un passaggio ancora diverso.

MDP  Se guardiamo alla scena contemporanea italiana ci accorgiamo che alcuni teatri, soprattutto pubblici, o non contemplano la figura del dramaturg residente, ovvero hanno istituzionalizzato per così dire questa figura, individuando però talora personalità di estrazione diversa senza una specifica competenza e coerenza professionale. Può trattarsi di semplice cosmesi che non sposta le gerarchie all'interno di quegli stessi teatri?

RM La figura e la funzione del dramaturg residente è al riguardo assai problematica. Il sospetto e la tentazione della cosmesi c'è, è indubbio, anche perché il dramaturg è divenuto una figura che riassume in sé molte funzioni, è un po' assistente alla regia ma anche consulente letterario e altro. Poi secondo me la difficoltà a collocare adeguatamente il dramaturg all'interno dei Teatri Stabili dipende dal fatto che non sempre sono chiaramente definiti, ovvero spesso si sovrappongono i ruoli del Direttore del Teatro e quello del regista, cioè il Direttore Artistico e il Direttore della Stagione sono la stessa cosa. Allora chi è il dramaturg? Cosa è chiamato a fare in realtà? È questa una ambiguità che dunque è a monte. Certo puoi trovare un dramaturg per ogni produzione, ovvero un dramaturg del teatro, che si occupa cioè del repertorio del teatro in quanto tale, ma già questa è una prima questione delicata. Infatti noi abbiamo molti registi che hanno già un loro dramaturg, che hanno già messo a punto con lui un percorso di lavoro specifico. Così è molto difficile poter vedere un teatro che abbia un dramaturg che possa lavorare con tutti i registi prodotti da quel teatro. Perché di fondo c'è una conflittualità o piuttosto una ambiguità tra la direzione del teatro e la regia di uno spettacolo. Dunque un teatro che nomina un dramaturg residente a cosa deve dare la priorità e a chi risponde questa figura? È molto bello immaginare la figura di un dramaturg che affianca la direzione del teatro per costruire insieme una stagione organica che dia un impulso alle tradizioni di quel teatro. Ma poi questo dramaturg a chi risponde? Al regista prodotto ovvero alla direzione del suo teatro? Chi ha l'ultima parola? Poichè è questa alla fine la questione di fondo del dramaturg residente.

MDP Come tu stessa hai potuto verificare e esporre nei tuoi studi, tra cui quello fondamentale con Meldolesi, all'estero la situazione è tuttora diversa e forse tu stessa nella tua attività hai potuto sperimentarlo, pur essendoti avvicinata più di altri ad una operatività più coerente con la figura del Dramaturg. Riconosci, se non eredi, qualche segnale di evoluzione?

RM In primo luogo non sono tanto sicura che la realtà europea sia sempre più evoluta. Cioè quella realtà ha una tradizione del dramaturg più consolidata soprattutto in quanto ha una tradizione di teatro più stanziale, che l'Italia di fatto non ha, tanto è vero che la questione dell'esclusiva, di cui ho parlato e che è un modo specifico di pensare il teatro, è una grave ipoteca non solo sul lavoro del dramaturg ma anche sulle possibilità di un giovane autore. Infatti un testo in un anno ha in genere una sola possibilità di rappresentazione. Per motivi anche di mercato non ci sono in contemporanea tre spettacoli uguali. Non accade da noi se non per qualche allestimento di classici, ma anche in quel caso con molta attenzione. Essendoci poi una politica delle ospitalità, per cui io vengo da te e tu poi vieni da me, non viene bene presentare lo stesso spettacolo. Dunque non so se all'estero la situazione è migliore, ma c'è un'altro tipo di organizzazione politica e amministrativa del teatro. Mi sembra che la possibilità più interessante, che può aprirsi per un giovane o non giovane che decida di confrontarsi con questa operatività, risiede da un lato nel rapporto con l'attore. Nella possibilità cioè sfruttare la tradizione italiana dell'autore/attore, che è cosa che in altri paesi non esiste con una storia così importante come in Italia, e intervenire su queste creazioni in maniera da togliere quella dimensione di auto-esposizione o di auto-rappresentazione che rischia di esserci in un autore/attore. E questo sarebbe un dramaturg più dentro la tradizione italiana. Dall'altro lato un dramaturg con una tradizione che non è tipicamente italiana, ma che può aiutare a capire meglio quale è la funzione del dramaturg in teatro, può esserci forse nel teatro danza. In quel tipo di teatro, infatti, la funzione del dramaturg non può confondersi con quella dell'autore teatrale poiché non c'è un testo, ovvero ci sono dei frammenti. Allora è possibile sottarsi a quella ambiguità di cui parlavamo prima in relazione a Edoardo Sanguineti. Questi due ambiti dunque consentono di lavorare con efficacia e di esplorare nuove possibilità. Una viene dalla tradizione italiana, l'altra da una esperienza non spiccatamente italiana, e consentono due cimenti diversi. L'aspetto problematico continua ad essere la relazione con il regista, perché il regista, per tradizione almeno dagli anni 50, dalla regia cosiddetta critica, ha assunto su di sé la funzione drammaturgica, e poi perché nei teatri che potrebbero permettersi una maggiore accoglienza del dramaturg residente, la funzione del regista e quella della direzione tendono a convergere in una medesima figura. È dunque difficile per il dramaturg inserirsi in una dimensione di questo tipo.

MDP È una questione complessa. Io credo però che ci sia ancora una scarsa volontà di comprendere una funzione che potrebbe essere innovativa e positiva per il teatro italiano. Un teatro che oggi trovo in qualche modo in crisi, anche a partire dalla stessa regia per la sua difficoltà a rinnovarsi, a seguire lo sviluppo e la diversa articolazione della creatività.

RM Peraltro un analogo problema si pone anche per i “gruppi”, anche se non ci sono in essi delle divisioni di ruolo così precise. Ci possono essere dei problemi economici, per cui può essere difficile, come dire, moltiplicare un nome in locandina. Però sicuramente è complicato per noi separare l'essere protagonista artistico di un'opera da una funzione come quella del dramaturg.

MDP Tutto ciò infatti riguarda l'approfondimento di un ruolo che ancora non ha trovato una precisa articolazione. Mi viene in mente in proposito quanto mi disse in una intervista Laura Olivi, che è stata come noto per tanti anni dramaturg in Germania. Mi spiegò che, quando lavorava, una delle sue funzioni, una volta che insieme al regista si era individuato e scelto il testo da mettere in scena, era quella di occuparsi di reperire tutti i materiali culturali, tutti gli scritti disponibili sull'autore e sul testo. Questo materiale veniva poi filtrato ed elaborato in funzione del registro interpretativo. A tavolino veniva infine presentato ad attori e regista e insieme a loro discusso e elaborato. Inoltre lei stessa si occupava poi di predispore un importantissimo materiale destinato al pubblico.

RM Proprio alcune delle funzioni tipiche di un dramaturg residente di un teatro stabile che in Italia fatica ad affermarsi.

MDP Paghiamo però per questo un deficit informativo notevole che non è certo recuperato con i vari comunicati stampa o con brevi locandine. Questo aspetto, anche per questioni economiche forse, pur se la cultura non dovrebbe essere considerata solo come un “costo”, è piuttosto trascurato ormai. Sono poche le realtà virtuose che pensano alla creazione artistica privilegiando la qualità, piuttosto che la ragioneria, lasciando quindi che la creatività dell'artista sia il più possibile libera. Potrebbe essere anche questo un aspetto positivo della attività del dramaturg, quando poi lascia lo spettacolo alla rappresentazione e al suo pubblico?

RM Io penso però che il drammatug non si debba “ritirare a un certo punto”. Penso che a un certo punto possa ritirarsi ma per poi ritornare. Questo forse perchè nella più importante esperienza che ho fatto come dramaturg con Thierry Salmon, una simile modalità era stata proprio definita come tale. Cioè lo stare fuori dalle prove per un certo periodo ma poi periodicamente verificare cosa era diventata nel frattempo la proposta, se e dove diventava incoerente. Se, infatti, in una prima fase il lavoro del dramaturg può essere propositivo, in una seconda fase, nella fase di processo produttivo dello spettacolo, egli diventa un pò la figura del primo spettatore che verifica l'impasto di emozioni o di complicità, o anche conflittualità, che si creano tra attore e regista, ma sempre tenendo la barra al testo, o comunque al progetto iniziale. Dunque ci sono due fasi diverse nel lavoro del dramaturg: prima che comincino le prove e poi durante le prove. Io non penso perciò che il dramaturg debba ritirarsi, o almeno nella mia pratica è stata sempre importante questa rinnovata partecipazione. Poi può esserci un momento in cui questo lavoro si interrompe, come in ciò che è chiamato riduzione o adattamento di un testo o sua riscrittura in funzione di un artista particolare, in funzione di un progetto o di un teatro. Ma anche in quel caso ci può essere anche un dopo. Io non credo infine che il dramaturg debba allargare le maglie della libertà dell'artista, piuttosto penso che debba mettergli qualche paletto, assicurandosi che sia coerente con la rappresentazione.

MDP Intendevo infatti il mettere l'artista nelle condizioni interiori migliori per esercitare esteticamente la sua libertà, mediando rispetto ai molti vincoli che oggi la ostacolano, a partire da quello economico, che impone tagli e restrizioni, per continuare con quelli di politica e di amministrazione dei teatri in funzione delle regole di accesso ai fondi pubblici e privati. In questo senso parlo di un mettersi in mezzo, un mediare anche esteticamente per alleggerire la creatività da questi vincoli.

RM Questi sono temi con i quali ho poco dimestichezza, che io non uso. Mi sono sempre più interessata agli aspetti compositivi dell'attività del dramaturg. Il mio lavoro è quello di mettere in relazione, organizzare i rapporti tra attore, regista e testo, così che non si confonda il come con il cosa. Di altri aspetti non mi occupo. Il lavoro del dramaturg, per me, è quello di tenere la barra al testo, in modo che i diversi soggetti siano più liberi rispetto a questa condizione, cosa che spesso si presenta. Vedo perciò più una dimensione artigianale in questo lavoro.

MDP Venendo ora ad argomenti più generali. Come leggi i mutamenti e le linee di tendenza del teatro italiano, nei suoi diversi segmenti e nei suoi diversi protagonisti, in relazione anche all'uscita dai recenti eventi pandemici?

RM Secondo me il problema principale è che si è determinata una grande mancanza di confronto, che non necessiariamente significa andare sempre d'accordo, anzi il confronto può essere anche molto conflittuale. Però non ho visto e non vedo molto confronto, e questo mi dispiace. Sicuramente, se non è stato acuito, però è stato reso più visibile da questi due anni. Per cui si tendono a creare più delle cordate, delle corporatività piuttosto che dei confronti tra artisti. C'è poco confronto forse perché c'è anche poco lavoro volto a definire le categorie del linguaggio teatrale. Si va subito alla poetica e la poetica, come tu sai, ti attribuisce ad una parrocchia piuttosto che a un'altra. Però, come detto, non c'è confronto sui termini teatrali, e questo non aiuta a crescere, ma piuttosto porta ad appiattire il cosa sul come. Anche in artisti maturi e di grande qualità si vede sempre di più, almeno io lo vedo, un predominare dello stile sulla scelta tematica o d'autore. Diceva Thierry Salmon che ogni testo ti indica gli strumenti con cui lavorarlo, quindi anche ogni materia ti indica gli strumenti con cui lavorarla. Tu non lavori il marmo con gli stessi utensili artigianali con cui lavori il legno. L'impressione è che adesso si tenda, sia che si faccia uno spettacolo sulle “mondine”, sia che se ne faccia sulla “mamma”, ad usare gli stessi strumenti compositivi. Lo stile dunque tende a consolidarsi anche in una medesima modalità di composizione. Al contrario, lo stile dovrebbe attraversare strumenti compositivi diversi rimanendo sé stesso. Se lo stile diventa una precisa modalità di composizione allora, tu capisci, che non c'è più spazio per il dramaturg, nel senso che non c'è più spazio ad una dialettica all'interno del processo creativo. Quel processo creativo particolare che è la rappresentazione, la quale ha più soggetti creatori.

MDP Mi sono accorta nel corso della mia frequentazione con il teatro, che amo molto, che le questioni economiche sembrano diventate molto importanti, molto più importanti di venti anni fa quando le compagnie erano più interessate a creare spettacoli, anche sei i fondi gli fossero negati. Tu come giudichi l'entità attuale e le modalità di distribuzione dei fondi pubblici, centrali e locali, in favore del teatro, nonché la loro efficacia?

RM È una questione molto delicata che mi tocca ora anche molto da vicino, per quanto riguarda la mia Bottega biblioteca. Secondo me c'è un problema che non è tanto l'entità dei fondi, ma riguarda le modalità e le condizioni della loro attribuzione. Infatti la questione non è “ti do cento”, bensì “ti do cento ma questi cento devono passare attraverso questo, questo, questo o quest'altro. Ora, secondo me, dunque il contributo comincia a troppo direttamente intervenire sul processo produttivo e creativo. Sul modo cioè di pensarlo e organizzarlo. E questo è uno dei motivi per cui, come dicevi tu, diventa più importante dello stimolo artistico, e lo diventa soprattutto per i giovani che nascono già dentro questo meccanismo, non necessariamente di mercato, ma di passaggi indispensabili per arrivare alla fase di creazione e produzione. Io penso che manchi uno spazio di autonomia nel pensare l'incontro con il pubblico. Infatti o si impone immediatamente la categoria del teatro commerciale, non dimenticando che anche il teatro commerciale è un teatro che ha realizzato e realizza grandi lavori, oppure si pensa che la ricerca che non possa trovare, all'interno delle sue specifiche modalità creative, delle modalità di incontro con il pubblico, di proposta del proprio lavoro con il pubblico. Così, secondo me, la cosa più grave è l'interferenza dei soggetti erogatori dei fondi sulla percezione che l'artista o l'artigiano teatrale ha del proprio lavoro. Tutto questo passa poi attraverso il linguaggio che così si declina necessariamente in categorie burocratico-amministrative e non estetiche. Passare ad esempio, nella definizione, da teatro a spettacolo dal vivo vuol dire già dare dei parametri che diventano un modo di pensarti. È più questo il problema, il fatto che il contributo economico abbia un impatto sul linguaggio teatrale, imponga una lingua che non è propria del teatro. Questo vale per i giovani ma anche per i meno giovani.

MDP  Tornando a te, e chiudere. Ora sei ritornata nella tua Romagna e a Bagnacavallo hai creato una bellissima biblioteca che raccoglie i tuoi scritti di teatro e non solo, in una sorta di fondo a disposizione degli studiosi e del pubblico. C'è secondo te fame di teatro in Italia e tra i giovani?

RM Il problema, più che la voglia di teatro, è secondo me dove i giovani possono incontrarlo, il teatro. Uno dei banchi di prova di questa  mia impresa un po' folle di trasformare una biblioteca privata in biblioteca pubblica, un luogo culturale pubblico, un luogo di incontro e di scambio, è anche questo. Dare cioè la possibilità di incontrare il teatro non inaspettatamente, ma bensì dove non ti aspetti di trovarlo e nelle forme che non credevi esistessero. Io nel programmare come Bottega il 2020, avevo pensato a degli incontri con dei bambini delle elementari, con cui peraltro nella mia attività non avevo mai lavorato. Avevo pensato dunque a degli incontri, che spero di poter comunque fare in futuro, intorno a “cosa capisci che è teatro”, “in che cosa riconosci che è teatro”, “cosa è che tu chiami teatro”, “cosa ti fa dire, in sostanza, che quella cosa lì è teatro”. Allora il problema è un po' questo, non che manchi la voglia di teatro, piuttosto è il fatto che per i giovani non ci siano molte occasioni di incontare il teatro. Di incontrare il teatro in una forma che tu puoi diclinare in molti modi, come storia, come lettura, come vite di attori o di artisti, questo è uno dei compiti  che mi sono data per questa biblioteca “ponte” tra teatro e cittadino. Dare cioè alle persone la possibilità di incontrare il teatro senza dover dire oggi vado a teatro.