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Questa riscrittura adattata alla Napoli anni 80 del famoso soggetto/sceneggiatura, ispirato ad una inchiesta giornalistica premio Pulitzer in quegli anni, di Bud Schulberg, che condivide con il pluripremiato e omonimo film di Elia Kazan del 1954, ha un grande merito accompagnato però, secondo me, da alcuni limiti. Il grande merito è quello di riportare sulle scene italiane i temi sociali, economici e del lavoro, precario ormai per definizione e oggi ben più di allora, spesso dimenticati o accantonati quasi che anche il teatro fosse rimasto vttima di una coazione a nascondere e a dimenticare che sembra aver presto prevalso nel passaggio di secolo e millennio. Tornare a parlare di subordinati, proletari e lotta di classe, come già Fausto Paravidino su questo stesso palcoscenico, e anche di infiltrazioni camorristiche, è una ventata non solo di aria fresca, nuova in quanto universale, ma soprattutto di verità, quella verità non cercata che informa i rapporti di forza e di potere in una Società in cui la

contrapposizione tra lavoro e capitale non è stata mai superata, nonostante le mirabolanti affermazioni sulla fine del secolo breve, ma semmai è stata perduta dai molti e vinta dai pochi e potenti.
Riappropiarci di una tale coscienza vuol dire poter riconquistare una corretta visione non solo del mondo che ci circonda, ma anche di quello che siamo nel profondo.
Se dunque il merito di questo spettacolo è soprattutto narrativo, raccontandoci un epos che fatichiamo a ricordare, ormai quasi mito, i limiti sono piuttosto di compattezza linguistica in quanto al meticciamento praticato tra linguaggi scenici e predominanti linguaggi cinematografici e anche televisivi, che la drammaturgia di Enrico Iannello e la regia di Alessandro Gassmann tentano con un condivisibile, forse, intento divulgativo, non consegue una coerenza piena ovvero una efficacia adeguata.
La sovrapposizione nuoce così all'approfondimento significativo e talora le tematiche più taglienti e spinose risultano in un certo qual modo edulcorate, ripartite tra istanze sentimentali o esistenziali e spirito di denuncia, e allontanano, consentendo più agevolmente di rivolgere ancora una volta il nostro sguardo altrove.
Un limite che è anche di tessitura drammatica, con risvolti talvolta ripetitivi che rischiano il macchiettismo, in un emergere inavvertito di luoghi comuni, anche dolorosi e tragici, che sembrano però appartenere più alla sceneggiata che al teatro inchiesta.
Pur con i suoi limiti di approfondimento narrativo, lo spettacolo è nel complesso buono ed un suo segno lo lascia, in particolare nelle belle scenografie dello stesso Gassmann che quasi riversano in scena una Napoli inusualmente fredda e grigia.
Il cast, numeroso come raramente è dato vedere oggi sui palcoscenici italiani, è di buona qualità, anche se a volte un po' troppo attento a far colpo sul pubblico.
Produzione: Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini. Traduzione e adattamento Enrico Ianniello. Regia e scene Alessandro Gassmann. Interpreti: Daniele Russo e con Emanuele Maria Basso, Renato Bisogni, Antimo Casertano, Antonio D’Avino, Sergio Del Prete, Francesca De Nicolais, Ernesto Lama, Biagio Musella, Manuel Severino, Pierluigi Tortora, Bruno Tràmice. Costumi: Mariano Tufano. Luci Marco Palmieri. Videografie Marco Schiavoni. Musiche: Pivio e Aldo De Scalzi.
Ospite della stagione del Teatro Nazionale di Genova, al teatro Della Corte dall'1 al 5 dicembre.