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Anticipa in un certo senso quello che potrebbe anzi dovrebbe essere un anno pasoliniano, il 2022 centenario della nascita, lo spettacolo di Ascanio Celestini che, a mio avviso, è assai più della sua consueta affabulazione in quanto capace di affondare il suo sguardo non solo nel flusso della Storia, con la S maiuscola, ma soprattutto di trascinare in quel flusso le esistenze singole, quelle di ciascuno di noi che l'ascolta e ne diventa un po' protagonista. Così, oltre l'attenzione alla condizione umana socialmente ovvero antropologicamente intesa, si percepisce in questo guardare il flusso della vita la capacità di intercettare valori universali e irriducibili dell'umanità, che infatti costituiscono l'orizzonte non dichiarato ma comunque esplicito di questo andare mentale e insieme concretamente fisico.
Il poeta (così efficacemente e affettuosamente chiama Pier Paolo Pasolini questo nostro interlocutore narratore in scena) ne è la guida, è il Virgilio che con pazienza ci spiega e ci mostra, poeticamente

appunto, quello che non riusciamo a vedere, con una capacità di implicazione politica alta che, dopo di lui (dopo Pasolini intendo), è diventata rara. È  una drammaturgia che si rivela man mano, costruita come una sorta di doppio contenitore, la vita  e i personaggi che si affaticano a viverla e la Storia, ma anche un sogno dentro un sogno di cui non sappiamo il sognatore, metafora epica ed estetica che rivela della realtà molto più di ogni sua descrizione.
Ritorniamo così a sentire parole che ci sono state ad un certo punto sottratte in nome di non si sa bene cosa, di una presunta pacificazione che alla fine si è rivelata solo l'affermazione, senza se e senza ma, di un potere sotterraneo e con esso della prevaricazione e di una diseguaglianza sempre più diffusa, come attesta l'esplodere della precarietà, segno della esistenza di molti in questo nuovo millennio.
Ma, come di nuovo percepiamo, la parola del poeta è inconsumabile e procede sottotraccia, come un fiume carsico del suo Friuli, e qualche pozzo si torna ad aprire per calmare un po' la nostra sete di verità e giustizia.
Ha detto al riguardo Alberto Moravia, ricordandolo nell'orazione funebre: <<abbiamo perso prima di tutto un poeta. E poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono soltanto tre o quattro in un secolo. Quando sarà finito questo secolo, Pasolini sarà tra i pochissimi che conteranno come poeta...E il poeta è sacro>>.
Uno spettacolo importante che, come altri e finalmente, torna a porre l'attenzione sulla politica e sulla condizione sociale dei nostri tempi, che non è 'naturale' e incontrovertibile ma piuttosto appare come l'esito di una guerra che si è consumata dietro e sulle nostre spalle.
Per darne piena evidenza percorre tutti i nodi più oscuri del recente passato, dei misteri italiani delle stragi, compreso l'assassinio di Pier Paolo Pasolini, ovvero dei colpi di stato minacciati, e lo fa indagando con l'arte che trasfigura la vita in metafora, narrandola con una chiarezza altrimenti perduta.
Icastica e significativa la chiusa, a segnare una continuità tragica e celata ai più, quando, come in una finale rivelazione, si ricorda l'anno della morte del poeta che era nato nell'anno primo dell'era fascista. Era il 1975, inverno a Ostia, l'anno 53° di quella stessa era fascista.
Produzione FABBRICA SRL con il contributo Regione Lazio e Fondo Unico 2021 sullo Spettacolo dal Vivo. Testo, Regia e interpretazione Ascanio Celestini. Voci: Grazia Napoletano e Luigi Celidonio. Musiche Gianluca Casadei. Suono Andrea Pesce. Disegno luci Filip Marocchi. Ospite del Teatro Nazionale di Genova, al teatro Ivo Chiesa dal 14 al 16 dicembre.