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Luì Angelini e Paola Serafini, alias La Voce delle Cose, sono teatranti di lungo corso. Il loro teatro è un teatro di sottrazione.
Iniziano come burattinai alla fine degli anni Settanta e dai burattini imparano la libertà dell'immediatezza, la sintesi d'improbabili drammaturgie e una comicità popolare che pare imparentarsi con le stramberie funamboliche delle avanguardie.
La loro cifra diventa una "casalinghitudine" talmente disarmante da farsi stile. Esplode poi nel teatro d'oggetti. I burattini non servono: serve solo guardarsi attorno, a patto però di possedere uno sguardo capace di incantarsi disincantando. Il segreto è la decontestualizzazione gli oggetti, che rimangono pur sempre se stessi, ma anche un altro da sé, in un palleggiarsi continuo tra significato e significante. È un mutamento di percezione a essere messa in atto, come se gli oggetti contenessero nel loro nome o nella loro forma o nel loro uso abituale un frammento necessitante per la storia da raccontarsi. Come se fosse una nota a piè di pagina, una chiosa, una didascalia a deflagrare in teatro in virtù di una razionalità umoristica capace di spalancare le porte dell'immaginario.
Al contributo di Luì Angelini che ora si pubblica, seguirà nei prossimi mesi quello di Paola Serafini, l’altra voce delle altre cose.
Alfonso Cipolla

IL NOME DELLA COSA
riflessioni per la rubrica “Drammaturgie del teatro di figure”
Luì Angelini

Comincio giustificando le ragioni del titolo: il teatro d'oggetti consiste nel prendere un certo numero di cose, collocarle in uno spazio, muoverle, proporre per loro un nome che le identifichi in un significato altro, convincere chi lo fa e chi lo guarda che tutto ciò è credibile. Un doppio scambio continuo tra il piano funzionale (del significante) e quello evocativo (del significato), condito con la salsa dell'ironia come in un gioco di parole.

La doppiezza facilmente percepita come intrinseca degli oggetti dipende da due aspetti del nostro sistema mentale: nell'aspetto 1 (funzionale) le tracce dell'esperienza pratica stimolano i neuroni canonici che ci predispongono a un uso corretto di quegli oggetti, attivando l'apparato motorio a un'impugnatura e a un movimento adeguati e così via, rendendoli a chi li guarda conosciuti e famigliari.
Nell'aspetto 2 (evocativo) il sistema delle associazioni mette in moto la pareidolia (ovvero l'attitudine psichica che tende a ricondurre a forme note oggetti o profili (naturali o artificiali) dalla forma casuale.
E quando si guardano manufatti conosciuti la pareidolia assume una modalità particolare: infatti, se vediamo una faccia o un animale in una nuvola, in qualche modo la nuvola scompare dal nostro pensiero, mentre se vediamo un coccodrillo in una pinza, la pinza è decisamente più presente nella nostra percezione, che diventa appunto doppia.
Il teatro d'oggetti ha in questa doppiezza contemporaneamente il suo obbligo inevitabile e le ragioni della sua potenza espressiva.

E' doppia anche la storia delle sue origini: è stato necessario un primo viaggio compiuto dal sistema economico-produttivo, cominciato con la necessità della riqualificazione post-bellica dell'apparato industriale negli anni '40-'50 del novecento e giunto al suo culmine venti anni dopo, i '60-'70, con quella che è stata chiamata 'società dei consumi'. Questo primo itinerario ha riempito il paesaggio di una sterminata quantità di oggetti, con forme, colori, tattilità diversificate come non si era mai visto nella storia umana. Oggetti, inoltre, di durata effimera, che diventavano obsoleti e abbandonati altrettanto a velocità mai vista.
Il secondo viaggio è quello compiuto dagli abitanti di questo paesaggio, cioè da tutti noi, praticanti o spettatori del teatro d'oggetti: un viaggio che va dalla scarsità alla sovrabbondanza attraverso il desiderio, il soddisfacimento come status symbol, la critica ideologica e infine l'ironia e le preoccupazioni ambientali.
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Stabiliti così i parametri di esistenza fondamentali e i prerequisiti storico-culturali, possiamo provare a riflettere sui modi in cui questa doppia percezione trova la strada per diventare qualcosa in grado di motivare chi lo fa e dare piacere a chi lo guarda
Essi sono costituiti da convenzioni e regole.
Le convenzioni sono quasi ovvie per chiunque si sia occupato di spettacolo o anche solo abbia memoria del gioco infantile: il “facciamo che…” ne è la base. Nessun interprete di Edipo ha mai perso per davvero gli occhi, nel pugilato di Rocky non vince il migliore, ma quello indicato nello script, e persino mio fratello Leonardo, ai tempi bambino di otto anni, era in grado di dichiarare a colpo sicuro “secondo me, in questo film, prima delle 11 si sposano.” e andare a dormire con serena certezza.
Il sistema delle convenzioni ha variazioni solo per grandi famiglie: lirica, prosa, cinema, teatro di figura, cartoni animati, stop-motion: tutte le Mimì, Manon, Butterfly operano entro lo stesso sistema di convenzioni, i Coyote, i Silvestri, i Tom idem. Il cinema ha dentro di sé più convenzioni: John Wayne, Gary Cooper e Ronald Reagan (prima della presidenza), e parallelamente Anne Parillaud (Nikita), Zhang Ziyi (La tigre e il dragone), Uma Thrman (Kill Bill)

Quanto alle regole le cose sono meno generalizzabili: esse sono necessarie affinché, lungo il canale delle convenzioni, non vada perduta, tra i realizzatori e gli spettatori, una condivisa credibilità che sostiene la tensione drammatica (nella sua accezione più ampia che tocca ugualmente il patetico e l'ironico, il tragico e il comico e via seguitando)
Le regole sono proprie del micromondo, devono essere calibrate in funzione degli strumenti di comunicazione che si stanno utilizzando.
Per chiarire la funzione delle regole, l'esempio probabilmente più evidente appartiene a un caso particolare di uso di oggetti, cioè l'impiego degli esplosivi nella tecnologia mineraria: per ottenere un minamento efficace occorre ben conoscere la geologia del materiale in cui i candelotti esplosivi vengono collocati: più le resistenze laterali sono forti più la spinta espansiva dell'esplosione arriva in profondità e il risultato è produttivo. Così si comportano le regole.
Se si fissano vincoli inamovibili, per quanto 'convenzionali', si ottiene una deflagrazione potente del significato teatrale percepito.
Se l'ispirazione non ha regole fisse, è come mettere un candelotto di intuizione nella sabbia della poesia: ciò non conduce a molto di più di una rumorosa nuvoletta.

Ora provo a descrivere poche regole che ritengo fondamentali nella pratica del teatro d'oggetti, o più correttamente, della forma di teatro d'oggetti che ho/abbiamo praticato, prima come Assondelli & Stecchettoni e poi come La Voce delle Cose.
1) L'omogeneità dell'universo
Quando si concorda “facciamo che… una penna è una persona”, allora tutte le penne sono persone, il colore di ogni cappuccio veicola un'informazione aggiuntiva su 'quella persona', il meccanismo a molla può indicare un tic, la trasparenza del fusto un valore morale, il segno grosso o fine che traccia uno stile di comportamento e così via. Ugualmente non occorre concordare nulla per sapere che la persona sia in piedi o distesa. Quando è distesa, un foglio appoggiato sopra lasciando sporgere il cappuccio è una coperta, se copre tutta la penna un sudario.
Se in scena arriva un martello tocca ricominciare da capo.
Ovvero, determinato l'atomo di informazione, le molecole ne discendono, come fanno gli astronomi partendo dallo studio della materia del nostro mondo per formulare ipotesi su stelle a milioni di anni luce di distanza.
Questa operazione unificante, che permette di limitare il numero di negoziati tra performer e spettatore, è probabilmente la regola più importante a cui attenersi per potere intrattenere un rapporto fluido con la storia che si è deciso di narrare e con la sua comunicabilità.
Il modo per costruire questa omogeneità può utilizzare diversi tipi di universo (tanto meglio se questo universo ha una qualche attinenza associativa con la storia che si sta trattando).
- ambientale: sono tutti oggetti di un officina, del bagno, di cucina
- funzionale: costruiti per tagliare, tracciar segni, illuminare
- componentistica: l'universo è un unico oggetto composito le cui parti giocano un ruolo indipendente.
Ognuna delle modalità di applicazione di questa regola ha esiti spettacolari diversi, ma i principi base garantiscono l'assunto fondamentale.
2) Partner compatibili
Ha la stessa motivazione della precedente, ma riguarda più in generale gli aspetti formali di ciò che si vede. E' una regola che vale senza dubbio per il teatro d'oggetti, ma che è presente un po' in tutto il teatro di figura: lo spettatore accetta la convenzione del “facciamo che…” a molti gradi di stilizzazione e di allontanamento dalla raffigurazione verista (si pensi alla pallina sull'indice della mano nuda di Obratszov), a patto che questa figura non venga a contatto con un altra di pieno impianto realistico.
Due esempi specifici per il teatro d'oggetti possono essere fatti:
- è sconsigliabile usare il cavatappi di design già sagomato in aspetto di ballerina
- scegliendo come universo i giocattoli, si evitino quelli antropo- e zoomorfi, altrimenti gli altri precipitano al ruolo di scenografia
3) Ruoli retorici
E' forse la regola più strana e specifica del teatro d'oggetti, tanto da diventare l'indicatore di una metodologia in sé. Prima di descriverla compiutamente penso che occorra inserire una premessa.  (continua)
Gli oggetti hanno una forte capacità suggestiva, ma una durata comunicativa breve. Possono trasmettere e addirittura amplificare una sensazione umana, ma non hanno la possibilità di esprimere l'insieme di un essere umano, pena ridursi a pupazzetti meno ben riusciti di quelli fatti apposta.
Rimedia a questo problema il ruolo dell'operatore umano che muove gli oggetti e propone la storia, collocandosi come mediatore fra le cose e il pubblico (così è nella mia/nostra esperienza di lavoro ma anche in quella vista praticare da altri colleghi). Questo tema è troppo ingombrante per i propositi di questo scritto che vuole tracciare un punto di vista generale e lo lascio all'altra metà de La Voce delle Cose, Paola Serafini, che si occuperà più dettagliatamente del nostro punto di vista su che cosa sia ideare e scrivere per il teatro d'oggetti.
Ma un altro derivato della riflessione sull'uso teatrale degli oggetti e quello di non chiedere loro di rappresentare il tutto del personaggio che evocano, ma di esserne l'emblema. E così si può tornare a parlare della regola 3.
3) (seguito)
Nel momento in cui l'oggetto diviene emblema e non raffigurazione a lui si aprono le potenti strade tracciate nel sistema viario (appunto una rete di comunicazione) delle figure retoriche:
- la metonimia di un Macbeth tutto pugnale
- l'iperbole di un lupo che contorce in sette rimbalzi le sue membra, e la scatola che lo compone, cadendo dal tetto della casa dei tre porcellini
- la metafora del Mediterraneo/vasca da bagno dove Ulisse sguazza dopo il ritorno a Itaca rievocando i suoi viaggi
- ecc.

Per concludere vi propongo un frammento di poesia che comincia con la parola “concludo”. E' scritta da Edoardo Sanguineti a proposito dell'uso delle parole in poesia (Postkarten (LXVII poesie) 49, 1972-1977)
Su questa ho operato alcune sostituzioni (in grassetto) e ,in calce, segue l'originale:
concludo che il teatro d'oggetti consiste, insomma, in questa specie di lavoro: mettere cose
come in corsivo, e tra virgolette: e sforzarsi di farle memorabili, come pezzi ed elementi
di storie (che si stampano in testa, così, con qualche contorno di adeguati segnali
socializzati): (come sono i concetti intuitivi di tagliente o di morbido, e, poniamo, di amico e nemico):
(che vengono a significare, poi, nell’insieme:
attento, o tu che guardi, e manda a mente):”
concludo che la poesia consiste, insomma, in questa specie di lavoro: mettere parole / come in corsivo, e tra virgolette: e sforzarsi di farle memorabili, come tante battute argute / e brevi (che si stampano in testa, così, con qualche contorno di adeguati segnali / socializzati): (come sono gli a capo, le allitterazioni, e, poniamo, le solite metafore): / (che vengono a significare, poi, nell’insieme: / attento, o tu che leggi, e manda a mente):”