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La compagnia Is Mascareddas di Tonino Murru e Donatella Pau, è una delle compagnie di teatro di figura fra le più interessanti del panorama italiano, capace in quarant’anni e oltre di attività di creare un repertorio straordinariamente variegato in un continuo superamento di se stessi. La loro è una necessità intrinseca dettata dal fatto di doversi letteralmente inventare un mestiere e un’arte, dato che in Sardegna, la loro terra, non è presente storicamente nessuna tradizione di marionette o burattini. L’apparente isolamento li ha spinti fin da subito ad aprirsi al mondo, viaggiando con modestia e curiosità alla scoperta dei maggiori festival europei e non solo. Ma questo non poteva bastare. Con la tenacia di un duro lavoro sono riusciti a portare in Sardegna (spesso per la prima volta in Italia) i più grandi maestri della scena internazionale, facendo dell’isola il centro del mondo.
Is Mascareddas è una compagnia laboratorio nel senso più concreto e passionale del termine. A Tonino Murru, che nutre una fede quasi commovente sulla forza incisiva dei burattini in un teatro che sia contemporaneo, abbiamo chiesto alcune riflessioni proprio su quest’aspetto. A Donatella Pau, straordinaria costruttrice di figure custodi di profonda umanità, chiederemo in una prossima occasione di raccontare altri percorsi di ricerca drammaturgica della compagnia.
Alfonso Cipolla

BURATTINI TESTIMONI DELLA PROPRIA CONTEMPORANEITÀ
Tonino Murru

È la prima volta che mi accingo a scrivere di drammaturgia burattinesca.  
La mia è stata una formazione prevalentemente da autodidatta e quindi parlerò della scrittura con esempi tratti da spettacoli realizzati dalla nostra compagnia nell’arco di ormai quarant’anni.
La nostra formazione è nata sull’onda di un breve periodo vissuto nel 1978 con una compagnia di burattini cileno-argentini, ”La Calecita”, che all’epoca proponeva uno spettacolo diviso in due parti - quattro numeri di varietà e una breve storia - interamente realizzato con la forma dei burattini a guanto all’italiana e con la partecipazione attiva degli spettatori. Quel dialogo aperto in rapporto diretto con il pubblico, per lo più familiare, è stato per noi un primo modello per produrre spettacoli che fossero allo stesso tempo coinvolgenti e mai banali.
Otello Sarzi è stato un altro ispiratore del nostro lavoro iniziale. Figlio della tradizione di Sandrone e Fagiolino, Otello ha saputo creare una sua personale concezione di spettacolo, sperimentando i più diversi materiali per la realizzazione di burattini che fossero in grado di essere stilisticamente credibili in testi complessi di autori come Kafka e Brecht, o in grandi varietà musicali, spettacoli quindi per bambini e per adulti, per poi tornare, sul finire della carriera, ai burattini a guanto come forma storica del teatro italiano e riproporre vecchi canovacci attualizzati.
Nei primi dieci anni della compagnia la nostra coscienza era ancora totalmente intuitiva, senza nessun riferimento né di tradizioni né di scuole o maestri. Solo successivamente avremmo capito che questo nostro agire istintivo era in sintonia con quello che Petrolini, Brook e altri maestri sostengono quando dicono che l’anima del popolo è una necessità fondamentale nel teatro e nel teatro dei burattini in modo particolare.
Questa nostra incoscienza teorica era però guidata dalla volontà politica di voler realizzare un lavoro artistico in stretto rapporto con un pubblico di rifermento preciso, ma che potesse avere anche una valenza universale. Una scelta dettata dal fatto di vivere e operare in Sardegna: terra dalle dinamiche sociali complesse e particolarissime. Da qui l’esigenza di un confronto continuo e di una conoscenza dei sentimenti più profondi del pubblico, sempre chiedendoci cosa fare e come farlo, cioè quali contenuti e quali forme scegliere. In tal senso è stato fondamentale viaggiare e vedere spettacoli di tutto il mondo, per capire (o almeno cercare di capire) quali risposte a interrogativi analoghi avevano trovato le varie compagnie: ispirandosi poi, citando e mai copiando, fino a trovare una linea e un percorso personale.
Nel 1992 tutta la ricerca e gli studi degli anni precedenti ci portò alla creazione di un burattino-eroe tutto sardo, Areste Paganòs, per uno spettacolo intitolato Fai da te incentrato sul tema della faida: uno spettacolo in baracca, ma con un linguaggio fumettistico. Decidemmo di chiedere un aiuto a Walter Broggini, burattinaio aperto alla contemporaneità e padre a sua volta di un nuovo personaggio, Pirù Pirù.
Walter ci aiutò a riscrivere il copione con un taglio assolutamente burattinesco. Lo spettacolo ebbe successo proprio per la sua scrittura, al tempo assolutamente una novità: un burattinaio e una burattinaia che insieme muovevano ben diciotto personaggi, sempre in continua sorpresa, con coscienza attoriale e dinamismo narrativo. La scommessa più grossa, che ha poi dettato una linea, fu quella di portare in scena non dei singoli caratteri, ma un’intera comunità, per tentare l’affresco di un mondo e di una coralità.
Iniziammo così a raccontare temi problematici della Sardegna come la faida, il banditismo e la “balentìa” nella trilogia di Areste Paganòs: Areste e la farina, Areste e i giganti e Areste Paganòs e lo strano caso del paese di Trastullas.
L’elaborazione della trilogia di Areste ci ha guidato verso l'esigenza di uno studio profondo dei personaggi attraverso la consapevolezza che soprattutto nel teatro di burattini è necessario smontare ogni stereotipo per poter scrivere un testo che sia vivo.
Un esempio. Durante il rifacimento di uno spettacolo con la nostra regista Karin Koller, la perdita della mamma di Donatella (l’altra anima della compagnia) a pochi giorni dall’inizio dei lavori, ci portò a realizzare uno spettacolo sul tema della morte e del lutto. Lo spettacolo che ne è nato raccontava di Babbo Morte e di suo figlio Beniamino che frequentava la Scuola di Morte, diretta dal babbo. Il lavoro venne presentato a una vetrina di teatro ragazzi del Sud, fu molto applaudito dal pubblico, eppure nel medesimo tempo riscontrammo che era stato oggetto di pesanti riserve da parte degli addetti ai lavori. Un noto critico mi disse: “Ridateci Paganòs!”.
Non convinti riproponemmo lo spettacolo in un festival a Torino e lì fu un grande successo. Sì, quello spettacolo piaceva molto, soprattutto ai bambini a riprova che i burattini possono affrontare temi ritenuti aprioristicamente tabù, riuscendo a parlare in modo profondo, seppure attraverso il riso, di un tema scabroso e spinoso come quello della morte: tema dove spesso si annida l’ipocrisia degli adulti.
Smontare stereotipi, inoltre, non è ipotizzare una drammaturgia associando necessariamente il teatro dei burattini al “battere”, ma si può raccontare anche prediligendo il “levare”. Così, quando anni fa un direttore didattico conoscitore dei burattini mi chiamò per un pomeriggio ludico teatrale con gli insegnanti, andai con un piccolo teatrino e con Giosuè e Peppino, due burattini che incarnano i tipici paesani di Sardegna, con la loro durezza, la loro coriaceità che teatralmente si carica di un umorismo concreto e surreale a un tempo. Non mi ero preparato e improvvisai facendo molti silenzi e pause lunghe a fronte di poche parole. Mi resi conto che funzionava: il direttore ne fu entusiasta e da lì iniziai a indagare e prendere fiducia nella possibilità che due burattini potessero essere efficaci e straordinariamente espressivi lavorando per sottrazione, riducendo al minimo movimenti e parole, addirittura rasentando il silenzio, come accadde durante il lockdown del 2020 quando Giosuè e Peppino in un video trasmesso sui social osservarono un minuto di silenzio in ossequio alla gravità del momento. Per i burattini un minuto è un tempo lunghissimo che può sembrare impensabile o addirittura insopportabile, eppure quell’azione, minimale, rarefatta, dal sapore beckettiano è stata colta e molto apprezzata in varie parti del mondo.
In sostanza per una concezione drammaturgica contemporanea è necessario indagare il personaggio, osservarlo veramente in profondità, smontarlo e capirlo. Un personaggio infatti, sia esso burattino, marionetta o oggetto quotidiano convince quando emana la forza del teatro, con forme e contenuti quanto più vari, semplici o sofisticati, con parole o senza, in definitiva quando chi vede lo spettacolo si porta a casa emozioni capaci di tradursi in concetti.
I burattini “credibili” a mio avviso sono quelli che pensano, che riflettono, che ascoltano, che fanno pause anche lunghe, che non si muovono convulsamente, ma che vivono veramente i sentimenti e che conducono il burattinaio oltre le sue paure preconcette. Sono quindi strumenti capaci di interiorizzare emozioni e volontà. Ad esempio, i già citati Giosuè e Peppino, nell’ultimissima produzione, si ritrovano in una casa di riposo per burattini, ma qui si rifiutano di vedere il loro glorioso passato finire miseramente in un ospizio, per questo decidono di non replicarlo più.
E oggi? Oggi la forma che preferisco nel raccontare il contemporaneo è proprio quella del burattino a guanto, attore a mezzo busto, con la sua sagacia, la sua ironia, ma anche con la sua capacità di essere personaggio a tutto tondo: l’approccio moderno della scrittura può utilizzare, soprattutto nel ritmo, stilemi pulcinelleschi ma a patto di sempre sorprenderci, stupirci, instillare dubbi, problematizzare il reale.
Credo fermamente nella necessità di favorire l’approccio dei giovani ai burattini - i burattini che nel fascismo hanno recitato contro il regime - perché credo nella loro capacità di incidere culturalmente. Ma ciò sarà possibile solo se sapremo ricreare una vera e nuova comunità d’intenti, altrimenti questo mestiere vivrà di stenti manieristi per poi morire di inedia.
Un ultimo esempio. Negli anni Novanta ci sono state esperienze molto interessanti, in cui i burattinai di diverse regioni associati organizzavano festival e rassegne: ciò permetteva un confronto reale e critico del proprio lavoro. È una modalità da recuperare, quasi una forma di resistenza proiettata all’esistenza, per evitare l’individualismo - o peggio lo “scambismo” di comodo tra compagnie - che oggi la fa da padrone.
Solo riflettendo a fondo sul nostro interlocutore (il pubblico), su cosa vogliamo dire e come, sulla “veridicità” dei personaggi e degli oggetti possiamo vincere la sfida di una scrittura contemporanea in cui la fantasia, accompagnata dalla fatica del lavoro artistico, sappia tradurre il nostro vivere e soffrire quotidiano in una forma di intrattenimento colta e, mi verrebbe da dire, necessaria per chi ci vede e ci ascolta.