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Nel contesto delle rappresentazioni classiche di Siracusa, ormai è abbastanza chiaro che, nel realizzare gli spettacoli, il problema da risolvere non è tanto il “come”, quanto il “perché”. Trattandosi di teatro colto, popolare a suo modo e totalmente contemporaneo, è facile capire come l’Istituto Nazionale del Dramma Antico, seguendo la sua tradizione, debba rivolgersi a grandi registi (italiani e internazionali), a grandi attori (non “sempre gli stessi”, ma sostanzialmente quelli capaci di non perdersi e restare padroni di se stessi e del proprio mestiere nello spazio enorme della scena/orchestra siracusana), a grandi artisti della scena (scenografi, coreografi, light designer, musicisti, tecnici), a maestranze esperte. Queste considerazioni, abbastanza ovvie, riguardano il versante del “come” costruire un allestimento all’altezza del Teatro Greco di Siracusa e dei testi meravigliosi della drammaturgia attica antica ed è per questo che, ormai da anni, raramente si vedono a Siracusa

spettacoli che possano definirsi complessivamente pessimi o del tutto privi di pregio formale. Ma il “come” non basta: davvero serve il “perché”, la motivazione interna che sappia dare allo spettacolo il senso di una sua reale e attuale necessità estetica. Dove nasce questo perché? Dove trovare questa motivazione interna? Nel dialogo profondo, ampio, radicale, serio, personale e politico, possibilmente sviluppato in tempi lunghi (e in questo aspetto c’è la direzione di un auspicabile e urgente miglioramento dell’azione dell’Inda), tra il regista e il testo antico. Più è profondo, colto e consapevole questo dialogo più lo spettacolo funziona, più passa nel pubblico il senso della sua necessità estetica e della sua verità.
Questa premessa per raccontare “Ifigenia in Tauride” di Euripide, il terzo spettacolo della LVII stagione delle rappresentazioni classiche che ha debuttato il 17 giugno): la regia è di Jacopo Gassmann, il testo, databile intono al 412 a.C. è tradotto da Giorgio Ieranò, , in scena ci sono Anna Della Rosa (un’Ifigenia potente, controllata, straniata, dotata di mille colori), Ivan Alovisio (Oreste), Massimo Nicolini (Pilade), Alessio Esposito (Bovaro), Stefano Santospago (il re Toante), Rosario Tedesco (il Messaggero), Anna Charlotte Barbera, Luisa Borini, Gloria Carovana, Brigida Cesareo, Caterina Filograno, Leda Kreider, Marta Cortellazzo Wiel, Roberta Crivelli, Giulia Mazzarino, Daniela Vitale (il Coro di schiave greche), Guido Bison, Gabriele Crisafulli, Domenico Lamparelli, Matteo Magatti, Jacopo Sarotti, Damiano Venuto (il Coro dei Tauri). Le scene sono di Gregorio Zurla, i visual designer sono Luca Brinchi e Daniele Spanò, i costumi sono disegnati da Gianluca Sbicca. Le musiche e il paesaggio sonoro sono creati da G.U.P. Alcaro, il disegno luci è di Gianni Staropoli, movimento e coreografie sono di Marco Angelilli.
L’idea centrale di questa regia riguarda la possibilità, anche solo teorica, di mettere in scena, nella contemporaneità, questo testo di Euripide (o qualunque testo della drammaturgia attica) se non a partire da una riflessione critica sul nostro rapporto con esso, con questa drammaturgia e, in fondo, con la vitalità della cultura classica nel nostro mondo. Una riflessione sulla sua concreta realtà storico-politica e sulla realtà preistorica o immaginaria (e quindi anch’essa politica) che nella mitologia è custodita. Ecco, questo ragionamento critico (ciò che prima si è definito il “perché” dello spettacolo) non può essere espresso che con una costruzione “meta-teatrale” o, meglio, “meta-spettacolare” (il “come”). Questa è l’idea centrale intorno alla quale gira tutto lo spettacolo di Gassmann ed è un’idea tanto feconda e interessante quanto impervia e difficile da realizzare concretamente. Un’idea che il regista esprime lungo tutto lo spettacolo ed anzi, immediatamente, con due segni forti, così fortemente evidenti che, paradossalmente, scompaiono dalla percezione del pubblico: sull’enorme spazio circolare della scena (quella che i greci definivano orchestra) sono posti dei grandi fari a vista, quasi a delimitare lo spazio, quasi ad avvertire tutti che ciò che si vedrà accadere in quello spazio è finzione, mimesi, teatro; nella stessa direzione, sebbene con una complessità simbolica ben più densa, la scenografia indica il tempio di Artemide ma allude chiaramente a un moderno spazio museale, lo spazio di un museo archeologico o preistorico o naturalistico. Ora, come un museo non è solo l’esposizione di oggetti provenienti dal passato, ma l’espressione (più o meno fondata scientificamente) di un’idea del passato in cui siamo noi che, consapevoli di noi stessi, integriamo e raccontiamo, degli oggetti (reperti, testimonianze, testi, opere d’arte) , così uno spettacolo costruito su un testo classico non può che essere il risultato colto e, appunto, critico di un’interlocuzione creativa e attuale con esso.
Non è affatto poco. È un’idea di regia feconda su cui Gassmann costruisce tutto lo spettacolo: dai grandi schermi che accolgono colori e immagini di statue (kouroi e korai) antiche, che poi diventano cornici e superfici abitate da immagini di pittura modera (Tiepolo) o finestre aperte su immagini filmiche del mare, alla vaghezza atemporale dei costumi sia di Oreste e Pilade, sia del coro, laddove più aderenti al tradizionale immaginario neoclassico sono i costumi e l’immagine complessiva di Ifigenia. A Fine spettacolo, gli schermi del tempio si aprono ad accogliere le poltrone di un teatro moderno. Ci sono gli attori che seduti osservano la scena e riflettono su quanto è loro accaduto: si palesano i microfoni ad amplificare le voci e si esplicita, quella dimensione meta-spettacolare che inneva tutto il lavoro.

Gassmann ha evidentemente studiato a lungo questo testo. Probabilmente, insieme col traduttore Ieranò, lo ha interrogato a lungo, ha esplorato la tradizione esegetica, la filologia, la critica, la storiografia, ha verificato l’operatività coeva ad Euripide dei miti che vi sono raccontati e di quelli sottesi ed ha intrecciato i diversi livelli formali della messinscena cogliendo non tanto il “messaggio” di Euripide (il dominio del caso, la labilità spesso mortale e negativa dell’azione degli dei: «Questi riti io li disprezzo -dice Ifigenia -. I ridicoli sofismi della Dea...»), quanto l’atteggiamento critico di Euripide nei confronti di quella massa mitica. E giustamente: il mito, come ci ha insegnato l’antropologia, non va mai assolutizzato, né si deve lasciare che il suo messaggio, senza parole, esprima la sua potenza distruttiva e assolutistica. Il mito classico non ha carattere di storia sacra, è piuttosto un patrimonio mobile e plurale di storie che vanno usate, tirate, persino manipolate come plot per fotografare, comprendere politicamente e filosoficamente il presente ed esprimerlo in tutta la sua indeterminatezza. Questo atteggiamento critico Euripide lo esprime ripetutamente non solo nella filigrana di senso di questo dramma, ma sostanzialmente in quasi tutto il dispiegarsi della sua produzione. Questa Ifigenia non è restata, morta in Aulide ma, appena sgozzata, Artemide sua dea protettrice, l’ha salvata e sostituita con una cerva, quindi l’ha trasportata nella lontana e misteriosa regione orientale dei Tauri. Qui Ifigenia è sacerdotessa di Artemide, costretta a svolgere i sacrifici umani imposti dalla tradizione indigena, e prigioniera de re Toante. La tragedia si svolge quindi, secondo stilemi abbastanza consueti, dal pathos del riconoscimento tra Ifigenia e Oreste e Pilade (amato amico di Oreste e marito di Elettra) all’elaborazione e all’attuazione, avventurosa, di un astuto piano per ingannare Toante, fuggire da quella terra e rapire la statua di Artemide, secondo quando era stato ordinato da Apollo ad Oreste.
Si coglie benissimo l’atteggiamento critico e razionalistico di Euripide, lo si amplifica e moltiplica, provando a impedire che lo spettacolo si faccia mera, seppure emozionante, epifania del mito. Si prova, ma si riesce sempre? No. Perché a fronte di una lettura e di un’idea di regia assai ambiziose, la “messa a terra” dello spettacolo appare in più punti poco meditata e poco assimilata dall’intero ensemble e il lavoro degli attori resta quasi sempre dentro il perimetro tradizionale del lavoro che si fa a Siracusa (con la sola eccezione di Anna Della Rosa che, forse spinta dalla complessità del personaggio di Ifigenia, sa mettere in campo una gamma veramente straordinaria di posture, di toni e di colori). Inoltre alcune idee e domande, che pure vengono alla luce, sono lasciare irrisolte: chi sono sostanzialmente Oreste e Pilade? Che tipo di regalità è quella di Toante? Che cosa esprime l’immagine del coro?   

Ifigenia in Tauride
Opera di Euripide, traduzione di Giorgio Ieranò, regia di Jacopo Gassmann. Scene di Gregorio Zurla. Visual Designer Luca Brinchi e Daniele Spanò. Costumi di Gianluca Sbicca e Progetto sonoro di G.U.P. Alcaro. Disegno luci di Gianni Staropoli. Maestro del coro è Bruno De Franceschi. I movimenti e le coreografie sono di Marco Angelilli. In scena nel Teatro Greco di Siracusa il 27, 28 e 30 giugno, il 2 e il 4 luglio.

Foto Ballarino - Pantano