Pin It

“Luca Ronconi parlava di parole epifaniche, a me piace chiamarle radianti. Sono quelle parole che nel momento in cui sono dette, lasciano una vibrazione nell’aria, sono parole che creano ponti, archi, e poi ti ritornano trasformate, eppure ne senti la radice”. Graziano Piazza è stato uno degli interpreti eletti dal maestro, protagonista e coprotagonista di spettacoli storici come Infinities di John D. Borrow, Odissea doppio ritorno di Botho Strauss e, prima ancora, Venezia salva di Simone Weil. Certamente è uno dei testimoni più vitali e autorevoli di quel teatro di parola che non si accontenta di dire e che si tiene lontano dal declamare, un teatro in ascolto di risonanze riposte, racchiuse, a volte soffocate in anfratti di senso che attraverso di esse chiede di essere liberato. Ora è Macbeth, il terzo Shakespeare in cui è diretto da Daniele Salvo, anch’egli di solida scuola ronconiana, dopo Re Lear e Marcantonio nel Giulio Cesare. Lo incontro tra una replica e l’altra al Globe Theatre di Roma, dove lo spettacolo

sarà in scena fino al 25 settembre 2022.

1 Macbeth è forse il personaggio shakespeariano più oscuro e complesso, quello che subisce e allo stesso tempo compie un mutamento sostanziale.

Macbeth è un uomo che impara a conoscere di sé qualcosa che egli stesso non sapeva di possedere: ambizione, violenza, follia. Conoscere di sé il lato oscuro significa inquietudine, richiamo verso territori sconosciuti, verso paesaggi che lo turbano profondamente, anzi mettono in gioco l’idea che ha sempre avuto sulla vita: coraggio, fierezza e tutto quel che di buono c’è sulla terra.

2 Quindi questa doppiezza è intestina, connaturata nel suo essere?

In Shakespeare  l’incipit è sempre indicazione su cui lavorare. Qui sono le streghe che danno l’indicazione dicendo ‘il bello è brutto, il brutto è bello’. Un ossimoro che indica ciò che ciascuno di noi contiene. In Macbeth queste due parti sono in una frizione massima e tutto ciò che si scatena da questa frizione rappresenta il suo destino, il destino che si compie.

3 Le streghe (qui Silvia Pietta, Francesca Maria, Giulia Galiani) e lady Macbeth, qui interpretata da Melania Giglio, rivestono un ruolo fondamentale.

Sono lo specchio capovolto che gli mostra chi è: un uomo frammentato, prismatico, nel senso che emana una luce che cambia continuamente colore. La fonte è la stessa ma a seconda di come si sposta e delle relazioni che vive, cambia colore. Nei confronti di Banquo, per esempio, Macbeth vive una forte sudditanza psicologica, è forse la persona di cui ha più paura perché rappresenta quella parte di sé che gli ricorda chi era. E il confronto con la paura ci riguarda tutti, ci riguarda in quanto uomini, persone, non solo personaggi.

4 Secondo te c’è in Macbeth qualcosa di prometeico?

Certo. C’è qualcosa in lui che va oltre. “Io oso fare tutto ciò che un uomo può osare”, dice. In questo senso vorrebbe essere ‘uomo’. Dando seguito a un richiamo che lo porta a ricercare uno stato che va oltre la coscienza di sé. Cioè a eliminare l’inganno della mente: quello è il suo tentativo poiché sente che la mente lo ha sopraffatto. “La mia mente è soffocata dall’immaginazione”. Ecco, io nell’interpretare Macbeth parto da questo presupposto: la mente, mente. È scientificamente provato che la mente non distingua tra ciò che è reale e ciò che non lo è. Se dici alla mente che ciò che vedi è reale, la mente ci crede.

5 Quindi siamo costituzionalmente manipolabili: non c’è scampo?

Se non siamo uniti con noi stessi, noi stessi ci autoinganniamo. Macbeth è un labirinto meraviglioso di ciò che è il continuo inganno della mente e di come sia egli stesso a creare questo inganno. Il monologo del pugnale ne è la sintesi.

6 Il pugnale. “Visione fatale, sei forse un parto della mia mente sconvolta …”

Sì, una creazione nata dal mio cervello, “l’impresa sanguinaria che prende forma davanti ai miei occhi”. I punti, convergenti, sono sostanzialmente due: come l’immaginazione crei il mondo e l’attitudine di Macbeth di creare forme nella sua mente. La discrepanza tra forma e attuazione determina il passaggio dall’una all’altra e questo passaggio è l’azione.

7 Ma qui siamo cascati dritti dritti dentro Amleto. “La coscienza ci rende tutti codardi … e imprese di grande altezza e momento deviano dal loro corso e prendono il nome di azione”

Infatti questa è la metafora dell’attore. “La vita è un’ombra che cammina, un povero attore che si dimena e pavoneggia”. Qui si capisce che il teatro è teatro dell’immaginazione. L’azione è immaginare di compiere una certa cosa e contemporaneamente essere convinti che quella cosa è. Quando alla fine dico “meglio morire con la corona”, mi allestisco l’atto dell’essere attore. Scrivendo “qui, proprio qui, nel banco di sabbia del tempo”, Shakespeare esprime precisamente la sua concezione di teatro. Il tempo che continuamente si confronta con il qui, con la possibilità di radicarsi nel qui e ora dell’esperienza scenica.

8 E quindi torniamo alla parola come vibrazione, la parola radiante, come la chiami tu.

La parola, nella sua conformazione vocalica e consonantica, è come se fosse un oggetto. E questo non è chiaro soltanto in Shakespeare che per noi è lingua tradotta,  ma è molto evidente anche in Dante: l’endecasillabo dantesco va vissuto e restituito come un oggetto, cercando la concretezza della parola. Che poi era proprio quello che ci chiedeva Ronconi: riportare la parola alla sua oggettività, destrutturandola ed eliminando tutto ciò che è ‘romanticismo’. Il che non significa però neutralità poiché l’oggettività non è affatto neutra. Se per esempio dico ‘rosso’, in quel suono, in quella parola, c’è tutto quello che mi porta a pronunciarla, le risonanze, gli echi, la storia. In questo senso è parola radiante. Ma è la parola stessa che ti chiede una presa di posizione.

9 Hai lavorato molto spesso con Peter Stein: il suo lavoro come si colloca rispetto a questo?

Anche Stein fa un lavoro sul linguaggio molto legato a questo discorso. Nel senso che mette fortemente in relazione la parola con l’azione e chiede una compromissione emotiva attraverso il corpo.

10 Riandiamo a Shakespeare e in particolare a Marcantonio, il personaggio da te interpretato nel Giulio Cesare, uno dei più grandi manipolatori di linguaggio.

La retorica shakespeariana nel monologo di Marcantonio contiene in sé il percorso emotivo, razionale e fisico del personaggio. Marcantonio esprime l’allineamento di queste tre condizioni. Interpretarlo significa trovare i momenti in cui la retorica si rompe lasciando intravedere una crepa attraverso cui traspare la verità.

11 Di Shakespeare hai firmato la regia di Misura per misura, che hai appositamente tradotto e adattato.

Sì, una traduzione pubblicata per le Edizioni Tlön con una guida alla lettura di Igor Sibaldi. Ho lavorato sulla traduzione, innanzitutto, proprio per permettere alla parola di avere il suo campo di elezione, che è quello teatrale, cercando di sviluppare queste tematiche relative all’azione della parola, la disposizione della parola di diventare azione, come appunto recita l’incipit: “Che la parola sia azione e poi lasciarle lavorare insieme”.

12 Un lavoro simile lo hai fatto con Ghiannis Ritsos di cui hai diretto Aiace in modo decisamente ‘sovversivo’, facendolo interpretare a una donna, Viola Graziosi.

Infatti anche in Ritsos quello che cercavo era una verità della parola che si esprimesse con tutte le trazioni che la parola porta con sé, con tutti gli attriti. E se la ragione prima per cui Aiace è stato interpretato da Viola è casuale, era in realtà un’idea che accarezzavo da tempo poiché nelle indicazioni d’autore si dice che Aiace parli a una donna che sta di spalle al pubblico e che ascolta tutto quello che lui dice. Potrebbe essere la moglie, Tecmessa, l’infermiera che lo assisteva nella clinica dove era in qualche modo prigioniero. È come se Aiace - Ritsos avesse bisogno di un testimone che possa perpetrare la sua storia. Ecco, è in questa testimonianza che il mito può esistere.

13 Un profeta?

Certamente un tramite, un medium, colei che può conservare la memoria perché senza memoria non c’è domani.

14 A proposito di medium, hai da poco interpretato Tiresia, il medium per eccellenza, nell’Edipo Re diretto da Robert Carsen, nella stagione appena passata dell’Inda, a Siracusa. Qual è il suo rapporto con la parola?

Tiresia non parla ma è parlato. Le parole sono suscitate da qualcosa che non è soltanto e completamente dominio della sua coscienza. Ma sa anche che è inutile parlare perché non sarà ascoltato e, quando viene costretto, è come se fosse posseduto dal Dio e quindi parla con la voce del Dio. Per me anche questa è una grande metafora del teatro. Io sono per l’attore invisibile, colui che, come diceva Antonin Artaud, mette in primo piano il personaggio, togliendone il riparo, sacrificando quindi, per quanto possibile, il proprio ego. Io cerco di negarmi nel personaggio ma anche nel lavoro d’insieme, soprattutto quando sono protagonista. Almeno, questo è il mio tentativo: sopire il mio ego nelle parole e nelle azioni. Non sempre ci riesco, ma sempre ci provo.

15 Per questo ruolo hai voluto vivere la cecità coprendo gli occhi con lenti nere. La domanda è retorica ma rispondimi lo stesso: nulla a che vedere con il buon Stanislavskij?  

Nulla. Per me è stato uno strumento di ancoraggio, qualcosa che mi ricordasse costantemente che dovevo avere un’altra vista. Quel che facevo era acuire gli altri sensi, cercare un legame forte con il qui e ora. Uno stratagemma utile più a me che al pubblico perché mi disponeva a vivere quel momento come unico. Ma cercare di trovare nel presente la compromissione efficace significa anche trovare una forte relazione con il pubblico perché la comunicazione avviene per e con il pubblico. Per questo i monologhi stessi sono sempre dialoghi con un pubblico che omette di dire  ma è come se noi ne sentissimo il pensiero rispondendo a quel pensiero con il monologo.  

16 La drammaturgia contemporanea, dal dramma borghese a oggi, rispetto ai classici e a Shakespeare, esige un rapporto differente con la parola?

No, il tipo di lavoro sulla parola non è diverso, anzi credo che il livello vibrazionale della parola, nella contemporaneità, debba essere in relazione ancora più stretta con il pubblico, al suo servizio. La nostra vita, dice Ritsos, è una quarta dimensione tra frammenti di mito che troviamo tra oggetti e parole.

17 Veniamo a Schifo (o Dreck), il monologo di Robert Schneider diretto da Cesare Lievi che rappresenta un po’ un cult nel tuo percorso, una sorta di ponte tra il palcoscenico e la strada. La storia di un illegale, extracomunitario, fuggito dalla guerra del golfo e finito a vendere rose. Ripercorriamone il disegno, per chiarire a chi legge il senso di questo lavoro. Tu, vestito da barbone, provavi a vendere rose fuori dal teatro, maltrattato o, alla meglio, ignorato da quegli stessi che poi ti avrebbero applaudito, alcuni dei quali morti di vergogna.

Schifo è stato immergermi completamente nella società contemporanea mettendo in gioco l’idea che ho sempre avuto dell’attore, al servizio di un teatro politico nel senso più ampio, un teatro sociale, civile. È stato calarsi nel magma della nostra società malata e comunicare il punto di vista che si modifica, lo spostamento. Il fatto che io stia fuori dal teatro a cercare di vendere rose e solo dopo faccia il mio ingresso in sala, con il pubblico che ha già preso posizione - lo stesso pubblico che pochi minuti prima mi aveva maltrattato o semplicemente non considerato, il pubblico che aveva negato la mia presenza - è proprio previsto dal copione e serve a smascherare un buonismo d’accatto: agli altri ma soprattutto a se stessi. Rivela di sé tratti nascosti o comunque rimossi che non avremmo immaginato di avere, che non volevamo vedere e ammettere. Aspetti di noi che ci spaventano, ci inquietano, ci fanno sentire brutti, pericolosi, violenti.

18 E quindi torniamo a Macbeth?

Infatti, torniamo a Macbeth e alle sue ombre.

E il cerchio si è chiuso, almeno per ora.

Segnaliamo di seguito i prossimi appuntamenti con Graziano Piazza:

L’amore, le armi: Enea eroe moderno
20 settembre 2022, Cavea del Parco della Musica “Ennio Morricone”.
Il percorso di Enea da Eneide di Virgilio, traduzione di Mario Ramous edita da Marsilio e rivista da Dario Del Corno, regia Piero Maccarinelli, voci Graziano Piazza e Viola Graziosi, musiche eseguite dal vivo da Rita Marcotulli  e Stefano Saletti & la Banda Ikona, testimonianza della scrittrice Andrea Marcolongo.  

Odisseo nostro contemporaneo
1 ottobre 2022, Domus Aurea
Testo di Q Academy, con Graziano Piazza e Viola Graziosi, musiche dal vivo di Stefano Saletti, voce di Barbara Eramo,  regia di Piero Maccarinelli.
Performance all’interno di Voci contemporanee in Domus Aurea
Rassegna ispirata al ciclo scultoreo delle Muse, voluto da Nerone e conservato all’interno della Domus, che dal 23 settembre al 9 ottobre accoglierà il pubblico in una serie visite guidate.